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Sisp Conference 2019

Sections and Panels

Section 2 - Teoria Politica (Political Theory)

Managers: Alessandro Campi (alessandro.campi@unipg.it), Antonio Floridia (antoniofloridia02@gmail.com)

Read Section abstractNel ripercorre nel 2011 la sua biografia accademica, Sartori scriveva: «la scienza politica ha lasciato cadere la relazione tra teoria e pratica, e si è concentrata unicamente sulla relazione tra teoria e ricerca (…) la teoria si è atrofizzata e trasformata nel semplice disegno di ricerca, la ricerca stessa è diventata un fine in sé, la domanda ‘scienza per cosa?’ è stata ignorata e, alla fine, poco è rimasto al di là della operazionalizzazione, della quantificazione o del trattamento statistico di una mole perennemente crescente di dati». Nel testo Sartori si riferiva agli Stati Uniti, ma sembra la
fotografia dell’Italia odierna dove la riflessione teorica sulla politica appare sempre più schiacciata tra una scienza politica ossessivamente empirica e una filosofia politica puramente speculativa. Nella convinzione che elaborazione teorico-concettuale e indagine empirica si sostengano e arricchiscano vicendevolmente, scopo di questa Sezione è provare a sollecitare una riflessione (critica) attorno ai fondamenti, agli assunti e ai principali temi della scienza politica contemporanea. In particolare, ma non esclusivamente, sono benvenute tutte quelle proposte che intendano mettere in discussione gli approcci epistemologici e metodologici prevalenti nella disciplina. Esiste una scienza politica o all’interno della disciplina è possibile individuare (e far convivere) approcci di ricerca diversi, anche se non necessariamente alternativi l’uno all’altro? Allo stesso tempo, si sollecitano contributi sui concetti fondamentali della scienza politica, a partire da tematiche che, pur restando centrali, non sembrano suscitare più il dovuto interesse o l’attenzione dei ricercatori: dal concetto stesso di “politica”, comprese le sue più recenti mutazioni, a quello di “sovranità”, soprattutto se collegato alle trasformazioni della democrazia e della teoria democratica; dal tema a sua volta classico del “potere” a tutta una serie di parole-chiave o di termini (“consenso”, “obbedienza”, “partiti”, “conflitto”, “partecipazione”, “pluralismo”, “ordine”, “legittimità”, etc. ) che sono al cuore degli studi di scienza politica ma che spesso vengono dati per presupposti e non più indagati nei loro diversi significati dal punto di vista, appunto, teorico (anche alla luce delle profonde trasformazioni storiche nel frattempo intervenute).
In questo quadro, assume un ruolo centrale una rinnovata riflessione teorica sul concetto stesso di democrazia, sui diversi “modelli” che la qualificano (“rappresentativa”, “diretta”, “plebiscitaria”, “deliberativa”, “partecipativa”) e sulle relazioni, differenze o sovrapposizioni, che si possono individuare tra queste diverse idee o concezioni. Obiettivo dovrebbe essere quello di attrezzare adeguatamente una strumentazione teorica in grado di cogliere le trasformazioni delle democrazie contemporanee e di mettere a fuoco la tensione tra dimensione normativa e dimensione empirica
che le attraversa. Uno spazio autonomo per la democratic theory può contribuire ad evitare il rischio che la scienza politica, talvolta surrettiziamente, si esaurisca in una classificazione empirica o meramente descrittiva delle forme o dei livelli di democrazia, o che la stessa “crisi della democrazia” divenga una locuzione vuota e sostanzialmente tautologica. Anche su questi temi si sollecitano proposte e interventi.
Sempre all’interno di questa cornice, una particolare attenzione andrebbe dedicata all’evoluzione della forma-partito e al concetto stesso di partito per come si è radicato nella tradizione politica contemporanea. Oltre a discutere le sue trasformazioni dal punto di vista funzionale e organizzativo, si tratterebbe cioè di riprendere la discussione teorica sul partito come forma, strumento, attore della lotta politica democratica e sui termini con cui oggi si pone, o può essere riproposta, la classica affermazione di Eric. E. Schattschneider: “modern democracy is unthinkable save in terms of the
parties". Di particolare rilievo, in tale quadro, si presenta una riflessione teorica sul significato dei modelli ideal-tipici con cui si guarda comunemente alle trasformazioni dei partiti, con una critica all’approccio deterministico con cui, spesso, viene affrontato il tema della correlazione tra i mutamenti sociali e il loro “riflesso” sulla forma e la struttura dei partiti; e una critica alla visione lineare della successione storica dei vari modelli di partito. In particolare, - di fronte all’emergere di nuove classificazioni – ad esempio, il “partito piattaforma” – si tratta di concettualizzare correttamente la connessione causale e funzionale tra le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione e il ruolo e la natura dei partiti e le loro dimensioni organizzative (leadership e membership) e politico-culturali (principi, idee, programmi).
Anche i concetti di “élite”, “oligarchia” e “classe politica”, tornati di attualità nel dibattito politico italiano, meriterebbe di essere sottoposti ad un’opera di ridefinizione concettuale, tenuto anche conto dell’importanza che essi hanno sempre avuto all’interno della tradizione italiana degli studi politici a partire dal primo Novecento (Mosca, Pareto, Michels).
Dal momento che l’originalità dal punto di vista storico del pensiero politico italiano – un pensiero che non si sovrappone linearmente a ciò che negli ultimi anni è stata chiamata Italian Theory, ma che comunque la comprende – è consistita soprattutto in una riflessione teorica sulla politica, sul potere, sulla società, si sollecitano altresì lavori e contributi dedicati a questa tradizione e ai suoi esponenti più significativi, con particolare riferimento all’arco temporale dall’Ottocento ai giorni nostri.
Particolare attenzione si vorrebbe inoltre riservare a panel che, in punto di teoria o di realizzazione empirica, sappiano valorizzare (oltre a discuterle criticamente) le crescenti – e a tutt’oggi ancor poco sfruttate – possibilità di integrazione della scienza politica con altre discipline ad essa più o meno contigue: dalle scienze cognitive alla psicologia sociale, dalla biologia all’economia politica ecc. Ma si sollecitano anche proposte finalizzate ad approfondire in che misura lo studio scientifico della politica possa arricchirsi dal confronto – sul piano metodologico e dei contenuti – con tutte quelle discipline che hanno a loro volta la politica come oggetto esclusivo o primario di interesse (Storia delle dottrine politiche, Filosofia politica, Sociologia politica, Storia politica ecc.).
Infine, nella Sezione si vorrebbero promuovere panel interessati a ripercorrere il percorso teorico- scientifico di alcuni dei padri o esponenti di punta della disciplina scomparsi nel corso degli ultimi anni (Theodore J. Lowi, Robert Dahl, Juan J. Linz, Kenneth Waltz, Maurice Duverger, Giovanni Sartori, Peter Mair). i cui lavori continuano a rappresentare punti di partenza imprescindibili per l’analisi delle democrazie, dei regimi non democratici, degli equilibri internazionali, dei sistemi di partito, ecc. La storia della Scienza politica e degli autori che ne hanno segnato il cammino è anch’essa utile per arricchirne e prospettive dal punto di vista teorico e della ricerca.

Thursday 12th September 2019
  Sperimentale Tabacchi - Aula SP1 10.15-12.00
  Studium 6 - Aula 3-B2/B3 13.15-15.00
Friday 13th September 2019
  Studium 6 - Aula 5-C3 09.00-10.45, 11.15-13.00
  Monastero - Aula Pianterreno 14.00-15.45
Saturday 14th September 2019
  Sperimentale Tabacchi - Aula SP1 09.00-10.45
  Sperimentale Tabacchi - Aula SP2 09.00-10.45, 11.15-13.00
  Sperimentale Tabacchi - Aula SP1 11.15-13.00
  Sperimentale Tabacchi - Aula SP4 11.15-13.00

 

Panel 2.1 I "Saggi sulla scienza politica in Italia" di Norberto Bobbio cinquant’anni dopo: nodi teorici e interpretativi


Nel 1969 Norberto Bobbio raccoglieva nei "Saggi sulla scienza politica in Italia" una serie di contributi su Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto. Con quell’operazione Bobbio contribuì alla legittimazione nella cultura e nell’accademia italiana della Scienza politica, che proprio allora – grazie alla riforma delle Facoltà di Scienze politiche – entrava nell’ordinamento universitario italiano. Ma con i suoi Saggi Bobbio propose anche una serie di ipotesi che andavano a collocarsi su diversi piani. Un primo aspetto concerneva naturalmente l’identificazione di una tradizione specifica per la scienza politica italiana, che – avendo i propri fondatori in Mosca e Pareto – risultava centrata sulla classe politica e sulle sue caratteristiche, oltre che sui meccanismi dell’alternanza al potere delle differenti classi politiche. Un secondo aspetto, concerneva anche l’interpretazione della vicenda storica della scienza politica italiana, perché Bobbio individuava una serie di ostacoli che avevano impedito la legittimazione teorica e accademica dello studio empirico dei fenomeni politici. Un terzo aspetto risultava connesso alla convinzione che esistessero condizioni politico-culturali – riconducibili all’indebolimento della tensione ideologica – che risultavano necessarie allo sviluppo di una scienza politica volta a un’analisi ‘scientifica’ della politica (e dunque alla critica delle rappresentazioni ‘ideologiche’). Infine, un ulteriore aspetto era legato alla relazione tra la scienza politica italiana e la tradizione italiana del realismo politico avviata da Machiavelli (un Machiavelli ‘realista’ del tutto differente da quello ‘rivoluzionario’ cui attingono gli esponenti della «Italian Theory»)
A cinquant’anni di distanza dalla pubblicazione dei Saggi sulla scienza politica in Italia, il panel intende sollecitare contributi intorno a questi nodi teorici e interpretativi, oltre che naturalmente intorno ad altri che il saggio di Bobbio suggeriva. In termini più specifici, sono dunque sollecitati paper che si concentrino su:

- la lettura che Bobbio proponeva della scienza politica italiana, contrassegnata dall’attenzione verso l’élite/classe politica (estendibile a una molteplicità di studiosi, come, per esempio, Dorso, Burzio, Gramsci, Maranini, Miglio, Sartori);
- L’interpretazione che Bobbio forniva degli ostacoli (culturali e accademici) allo sviluppo della scienza politica italiana;
- L’interpretazione proposta nei Saggi sulle condizioni (politico-culturali) che rendono possibile la ricerca scientifica sui fenomeni politici (anche in relazione al rapporto tra «ideologia» e «scienza», «valori» e «scienza», oltre che all’ambizione della «politica scientifica»);
- La relazione tra la tradizione ‘italiana’ della scienza politica, filiazione per molti versi del realismo politico di Machiavelli, e la «Italian Theory».
2.1 I "Saggi sulla Scienza Politica in Italia" di Norberto Bobbio cinquant'anni dopo: nodi teorici e interpretativi

Chairs: Damiano Palano, David Ragazzoni

Discussants: Damiano Palano, Alessandro Campi

"Bobbio on Berlusconi: Parties, Factions, and the Populist Appropriation of Party Democracy"
David Ragazzoni
AbstractIn the new wave of literature on populism that has developed in Anglophone political theory, populism’s vision of parties has surprisingly received scarce attention. Democratic theorists agree on interpreting populism and technocracy as converging critiques of party democracy. They also emphasize the ability of both to free ride on widespread political disaffection to attack the legitimacy of intermediary bodies and electoral representative institutions. And yet, the way in which populism appropriates (instead of simply contesting) the idea and practice of party spirit and eventually reshuffle the logic of party democracy remains neglected. My paper draws attention to this overlooked aspect of the populist phenomenon. It does so through the work of Norberto Bobbio (1909-2004), the leading political and legal theorist of XX-century Italy. Among Anglo-American scholars, the name of Bobbio traditionally evokes one of the main accounts of procedural democracy in the canon of XX-century democratic theory (together with the names of Hans Kelsen, Joseph Schumpeter, and Karl Popper). Multi-partyism figures prominently among the procedures that Bobbio considered vital for the peaceful resolution of conflicts in democratic societies based on freedom and equality. Moreover, he consistently mentioned the persistence of oligarchies (vs. elites) and the rejection of parties among the “six broken promises” of democratic politics – one of the most daunting violations of his idea(l) of democracy as “the exercise of public power in public” (as he liked to phrase it in Kantian terms). However, neither Bobbio scholars nor democratic theorists in general have systematically explored the central role that the concern with parties, their nature, and their transformations played in the unfolding of Bobbio’s meditation on democracy across the decades. As I shall demonstrate, his political writings –a part of his encyclopedic work that has so far been neglected outside Italy and yet is complementary to his more well-known publications in democratic theory– remain extremely relevant for the insights that they can offer to scholars seeking to conceptualize the distinctive manipulation of party democracy that populism operates within the boundaries of democracy itself. The attempt to grasp the distinctiveness of the political success of Silvio Berlusconi and the elusive nature of his “no-party party” (Forza Italia) fueled a reflection on the internal challenges to party democracy, the features of modern demagoguery, and the fate of electoral republics in the age of video-cracy that resonated widely, and prolongedly, in Bobbio’s work. More specifically, this paper draws attention to Bobbio’s attempt, through the study of Berlusconi’s populism, to distinguish between parties and factions in the specific context of party democracies – that is, in democratic regimes and societies that are structurally based on parties competing in free and equal elections and yet remain always vulnerable to revived forms of factionalism. Like his colleague Giovanni Sartori, Bobbio was aware that the distinction between parties and factions constituted a fundamental and long-processed acquisition of pre-democratic politics –a watershed in Western political thought and practice– dating back to Bolingbroke (late 1730s-early 1740s), Hume (1740s-1750s), and, most decisively, Burke (1770). Like Hans Kelsen and Eric Schattschneider, he also firmly believed that modern democracy could not exist without political parties. However, he was equally aware that, even under conditions of democratic multi-partyism, parties could easily regress to the stage of factions and that, accordingly, party democracy could never be taken for granted. “One main theme runs through the most prominent political writings of all epochs”, he wrote in Parties or Factions? (1979), “a theme that the practitioners of politics have somehow forgotten; factions undermine and dissolve republics. And political parties turn into factions whenever they compete for the sake of their own power and profit – whenever, in the attempt to diminish the power of other factions, they do not think twice about tearing the state apart from within”. Such words echoed the slightly earlier analysis of Sartori, whose Parties and Party Systems (1976) had drawn attention to the “endless cycle of extinction and revival of factions” as a perennial dynamic in the practice of politics, fueling the horror of civil strife in the past and justifying frequent calls for party-less democracy in the present. However, Sartori’s famous threefold “rationale of parties” –parties are not factions; they are parts-of-a-whole; and they work as channels of expression– failed to provide a valid criterion to distinguish properly between parties and factions within party democracies. Far from a consolidated acquisition of our political vocabulary, the line of demarcation between the two forms of partisan agency continues to remain thin, especially in the context of increasingly polarized politics wherein the charge of factionalism often becomes a rhetorical strategy to discredit a priori the political antagonists and their arguments. In the early 1990s Bobbio witnessed, and analyzed, the implosion of most of the parties that had dominated Italy’s political stage for over forty years and the subsequent rise of Silvio Berlusconi – two events that marked a watershed in the trajectory of Italian democracy, with the unparalleled centrality of leaders (over parties) and the increasing role of television (over the Parliament) in forging the content and the style of the political debate. As Bobbio made clear in his editorials, Berlusconi’s personalization of politics, against and beyond parties, was simply the outcome of a long process of erosion of the legitimacy of representative institutions and the championing of an alternative, plebiscitary conception of leadership dating back to the 1980s and the early 1990s. “The acclamation is the most radical antithesis of democratic election”, Bobbio wrote in a short piece titled “Applause Democracy” (1984) on the election by acclamation of the leader of the Italian Socialist Party, Bettino Craxi. “[I]t is not an election but the legitimation of a charismatic leader, applauded and acclaimed and thus free from any pressure of accountability and responsiveness to his electors”. When the most successful media tycoon of the country decided to launch his new movement promising a “liberal revolution” that would champion individual freedoms and entrepreneurship against state control and the intrusion of parties, Bobbio called it a betrayal of liberalism as “the art of separations” (as theorized by Michael Walzer). On his account, the unprecedented concentration of massive political, economic, and mediatic power in the hands of the same individual made Berlusconi a closeted despot rather than an outspoken liberal, posing a potentially serious threat to the foundational logic of constitutional democracy. Berlusconi’s impatience with the institutions and procedures of modern representative politics – legitimate opposition; rotation in office; party government; rule of law; checks and balances – was evident (and became even more so over the years) at multiple levels: his constant demonization of Communists as enemies (rather than antagonists) unworthy of governmental responsibilities and basic political respect; his systematic derision of the judiciary as a partisan branch at the mercy of the Communist Party; his frequent resort to decrees to quickly pass laws favoring his own interests and skillfully bypass parliamentary deliberation; his attempts to increasingly empower the executive over the legislative and thus redesign Italy’s Constitution along semi-presidential lines. Contributing to the exceptionality of the Italian case were, on Bobbio’s view, the elusive nature of Berlusconi’s new political movement –Forza Italia (Go, Italy!)–, its vague characterization as a “non-party party”, and the lack of transparency over both its statute and its funding. As Bobbio understood, Berlusconi’s visions of the state and the party were structurally connected and equally based on a hyper-liberal celebration of individual entrepreneurship. Having built, ex novo, first his economic empire and then his own political party, Berlusconi believed that the state and its institutions, too, were at the mercy of his personal interests and could thus amplify the reach of his partisan action, as if both the party and the state were just an extension of his body and thus an appendix of his public persona. His political populism and his institutional patrimonialism were two sides of the same coin, or, as I put it rephrasing Kantorowicz, “the populist leader’s two bodies”. The former was exemplified by the name of a party –Forza Italia– that meant to appeal holistically to the entire nation (no Italian citizen would refuse to side with Italy!) and mobilize the country against previous party elites. The latter, instead, was well illustrated by his habit, as a four-time Prime Minister, to pass laws ad personam through the legislative whenever he had a clear parliamentary majority; to resort to rule by decree through the executive whenever he wanted to bypass parliamentary scrutiny; or even to reshape or dissolve contingent majorities, and thus decide over the life cycles of governments, by employing his massive financial resources to literally buy the support of MPs affiliated with other parties. When properly contextualized and revisited, Bobbio’s considerations on Berlusconi are worth mining for the contributions –historical, conceptual, normative– that they can provide within three distinct, yet interconnected, bodies of literature in Anglophone democratic theory: the recent rejuvenation of the study of parties and partisanship;the growing theorization of populism; and the flourishing analyses of democracy's decay.

Bobbio e la democrazia
Roberto Giannetti
AbstractLa pubblicazione dei Saggi sulla scienza politica in Italia ha avuto il merito indiscutibile di aver riportato l'attenzione sui teorici delle élites e, in particolare, sull'opera di Mosca e Pareto, nella cultura politica italiana del secondo dopoguerra. In quelle pagine Norberto Bobbio, sottolineando l'importanza della distinzione tra il valore scientifico e l'uso ideologico di una teoria, metteva in evidenza non solo la validità del nucleo centrale della riflessione degli elitisti - in ogni società è sempre una minoranza organizzata a dirigere la maggioranza - ma anche la possibilità di utilizzare le acquisizioni di quella teoria in chiave liberale e democratica. È a partire da queste riflessioni che il filosofo torinese, attraverso la mediazione di Kelsen e di Schumpeter, procederà ad un "affinamento" della teoria procedurale della democrazia di cui l’elitismo è parte integrante. La democrazia è infatti vista da Bobbio come un insieme di regole che stabiliscono chi e in che modo è autorizzato a prendere decisioni vincolanti per tutti i membri della collettività. Nel corso degli anni, nella riflessione di Bobbio il perfezionamento di questa teoria si è accompagnato ad una denuncia dei limiti - le celebri «promesse non mantenute» - cui va incontro la democrazia nelle società complesse, vale a dire quell'insieme di vincoli o di ostacoli che si frappongono tra l'ideale democratico e la sua effettiva realizzazione. L'obiettivo di questo intervento è ricostruire la concezione della democrazia di Bobbio focalizzando l’attenzione su due aspetti: da un lato, il rapporto tra elitismo e democrazia che caratterizza la versione della teoria procedurale fatta propria dal filosofo torinese e, dall’altro, il criterio adottato per mostrare le divergenze abissali tra le promesse e i risultati della democrazia. Argomenterò che mentre il contributo alla concezione procedurale è destinato a restare nella teoria politica del Novecento, più di una perplessità suscita invece l'idea che le le democrazie rappresentative moderne siano una sorta di realizzazione depotenziata rispetto al modello prefigurato dalla dottrina classica della democrazia.

Norberto Bobbio e la possibilità di una politica scientifica. Una analisi critica
Gianluca Damiani
AbstractCome noto, a partire dagli anni ’60, il dibattito italiano sulla natura e l’importanza della Scienza Politica ha subito una accelerazione, fino alla nascita e alla piena legittimazione di un programma di studio universitario in Scienze Politiche. Di questo dibattito Norberto Bobbio è stato uno dei protagonisti, e i 'Saggi sulla Scienza Politica in Italia', la cui prima edizione è del 1969, ne sono la dimostrazione. Questo intervento vuole partire dall’analisi di quelle che per Bobbio sono le possibilità di uno studio scientifico della politica, mettendo l’accento sulla sua lettura di ciò che vuol dire fare una analisi scientifica della politica e della società, integrando i saggi anche con altri contributi, a partire dalla voce ‘Scienza Politica’ per il Dizionario di Politica, 1976, edito da UTET. Ma al tempo stesso si vuole mettere in luce come a partire, almeno in parte, dalle sue stesse premesse (in particolare i lavori di Mosca e Pareto), e con un medesimo obiettivo, il passaggio della Scienza Politica da disciplina normativa a disciplina positiva, altri autori ed altre tradizioni di pensiero e di analisi abbiano offerto letture divergenti da quelle dello studioso torinese. Ciò per quanto riguarda il metodo, i problemi da esaminare e gli strumenti da adottare. Sembra interessante ed utile affrontare questo tipo di problemi sia perché tracce non sviluppate possono essere trovate già nell’opera di Mosca e di Pareto, sia perché il discorso è strettamente legato ad una riflessione propria del mondo scientifico italiano (a partire dalla «Scuola Italiana di Scienza delle Finanze», che è debitrice, e in parte ispiratrice, di Mosca e Pareto). Quest’ultimo punto in particolare desta interesse, perché parallelamente alle riflessioni di Bobbio, si è assistito, nel campo degli studi politici e sociali, alle originali interpretazioni di Bruno Leoni e alla riscoperta della tradizione italiana, in particolare a partire dai lavori di James M. Buchanan negli USA. Proprio di Leoni, che condivide con Bobbio un milieu culturale molto simile (la “scuola” di Gioele Solari), si vuole evidenziare l’originale e pressoché solitaria attenzione, nel panorama culturale italiano, di quanto, nel campo degli studi politici, soprattutto nel mondo anglo-sassone stava venendo dibattuto con profitto e con conseguenze molto importanti per lo sviluppo della Scienza Politica, e non solo (da Arrow a Downs, passando per Duncan Black, fino ovviamente a Buchanan). Prova ne sono le sue 'Lezioni di Dottrina dello Stato', 2004 (1957) dove all’interno della rigidità imposta dalla natura giuridica e formale della disciplina, lo studioso affronta il problema delle decisioni politiche ed il rapporto tra politica ed economia. Quello che questo lavoro allora si propone, sinteticamente, di fare è: da un lato presentare il dibattito sullo sviluppo della Scienza Politica in Italia sotto una luce diversa da quella datane da Bobbio nei saggi. analizzare, a partire dal confronto con Leoni (solo in merito alla Scienza Politica) le possibili ragioni della parzialità della lettura bobbiana. provare, infine, a delineare alcune conseguenze che questo ha potuto avere nello sviluppo degli studi politici in Italia

Una filosofia per l’Italia. Da Norberto Bobbio all’“Italian Thought”
Corrado Claverini
AbstractNel 1969, oltre ai "Saggi sulla scienza politica in Italia", Norberto Bobbio pubblicò anche la prima edizione del "Profilo ideologico del Novecento italiano", opera in cui definisce l’“ideologia italiana” come “un orientamento dominante, egemone, quasi ufficiale che non appena scosso da tendenze contrarie riprende il sopravvento, e fa apparire eretico, non genuino, non nazionale, ogni altro pensiero che non vi si adegua”. Incarnazione perfetta di tale ideologia è, secondo Bobbio, Giovanni Gentile. Fra le vittime dello spiritualismo gentiliano vi è, in primis, uno degli autori italiani più studiati da Bobbio, ovvero Carlo Cattaneo, “la cui voce fu soffocata tra giobertismo e hegelismo”. Che occorra ripartire da pensatori screditati dalla tradizione idealistica è istanza condivisa anche da Eugenio Garin – coetaneo di Bobbio – che non a caso espresse l’esigenza di sapore gobettiano di riservare in “una storia della cultura filosofica italiana dell’Ottocento [...] molto minor posto ai Rosmini e ai Gioberti nei confronti dei Romagnosi e dei Cattaneo” (cfr. "Storia della filosofia italiana"). Dal pensiero di quali filosofi deve ripartire l’Italia? Da Gioberti oppure da Cattaneo? Oggi una nuova tendenza filosofica ha fornito un’ulteriore risposta a tali quesiti, affiancandosi così alla linea Spaventa-Gentile e a quella Bobbio-Garin (quest’ultima portata avanti, fra gli altri, dai rispettivi allievi Portinaro e Ciliberto). I principali esponenti di questo nuovo modo di fare filosofia – noto come "Italian Thought" (o "Italian Theory") – sono Roberto Esposito e Toni Negri che, pur richiamandosi entrambi a Machiavelli, ne forniscono due letture differenti e non sovrapponibili.

Una strana eterogenesi dei fini: il ruolo di Norberto Bobbio nella ricezione del marxismo italiano nel Regno Unito
Giacomo Tarascio
AbstractL’intervento proposto vuole illustrare la ricezione e la funzione dell’opera bobbiana all’interno delle diramazioni che collegano il marxismo italiano alla cosiddetta «Italian theory». Verrà esposta una ricostruzione dal nucleo della concezione marxista come delineata negli studi di Bobbio, percorrendo lo sviluppo e il contributo italiano alla teoria del materialismo storico, per poi definirne la ricezione rispetto ad alcuni filoni dell’«Italian theory» – in particolare attraverso il contributo indiretto avuto da Bobbio nella ricezione di Gramsci nel mondo anglosassone. A partire da questa prima definizione si vogliono dirimere alcune incomprensioni riguardanti l’«Italian theory», categoria nata in ambito anglosassone per racchiudere tutto il pensiero critico e radicale italiano. Categoria recentemente rientrata nel dibattito accademico italiano e che, tuttavia, serve a restringere sotto un unico ombrello posizione diverse, amplificandone alcuni comuni elementi secondari a discapito di forti specificità spesso inconciliabili. Finiscono così sotto lo stesso ombrello gli studi gramsciani, il post-operaismo, le analisi foucaultiane e postmoderniste. In questo senso si specifica come con «Italian theory» non si voglia intendere tanto gli autori ricondotti a questo contenitore, quanto il corpo teorico percepito in ambito accademico – principalmente britannico. È dal secondo punto di vista che diventano evidenti le tracce lasciate da Bobbio, in particolare della sua interpretazione di Gramsci come teorico della sovrastruttura da contrapporre a Marx: pur ormai confutata dagli studi filologici gramsciani, questo tipo di lettura ha trovato un terreno fertile in quei settori del pensiero critico britannico che fin dagli anni sessanta cercavano un marxismo slegato dall’ortodossia sovietica. Il filtro bobbiano sulla concettualizzazione dell’egemonia ha generato un ramo separato dagli studi gramsciani, dove si distinguono in particolare Anderson, Mouffe e Laclau. In questo processo si potranno analizzare due ulteriori tendenze: la prima è il rientro in Italia della concettualizzazione alternativa di egemonia attraverso l’«Italian theory»; la seconda è l’inclusione di Bobbio – pur nella sua evidente distanza – nelle fonti del pensiero critico britannico, come testimonia l’inclusione dei suoi testi nella collana «Radical Thinkers» dell’editore londinese Verso, al fianco di teorici come Lukacs, Adorno o Althusser.

 

Round table

Panel 2.1 Gli anni di Aldo Moro. Il mutamento nel sistema politico italiano negli anni Settanta
  round table joint with Panel 4.9 - Gli anni di Aldo Moro. Il mutamento nel sistema politico italiano negli anni Settanta


TAVOLA ROTONDA CONGIUNTA COORDINATA DALLE SEZIONI "TEORIA POLITICA" E "SISTEMA POLITICO ITALIANO"

Proposto dallo Standing group Sisp Politica e Storia, il nostro panel propone la formula della "tavola rotonda" e intende esplorare il mutamento nel sistema politico italiano negli anni Settanta, con particolare attenzione alla cultura politica dei partiti, alla loro organizzazione, ai rapporti con i nuovi movimenti sociali e al contesto internazionale.
Tavola rotonda inter- sezione (sezione 2 e 4) - Gli anni di Aldo Moro. Il mutamento nel sistema politico italiano negli anni Settanta

 

Partecipanti:

Marco Almagisti 

Valentine Lomellini 

Cecilia Bergaglio 

Michele Sorice

Chairs: Marco Almagisti, Valentine Lomellini

 

Panel 2.2 Tornare alla teoria (politica)? Per una discussione sulla condizione degli studi politici in Italia


C’è ancora spazio per la teoria negli studi politici in Italia? Rispetto ad una tradizione di ricerca (come quella italianai) che ha sempre visto convivere la riflessione teorica sul potere con la dimensione storica e la ricerca empirica, si assiste oggi – soprattutto tra gli scienziati della politica dell'ultima generazione – ad un crescente rigetto di qualunque dimensione ritenuta troppo astratta e speculativa, in quanto considerata non rispondente ai canoni (in primis formali) di rigore e oggettività codificati dalla comunità scientifica internazionale. Ma la creazione di rigide barriere disciplinari davvero contribuisce ad aumentare la nostra conoscenza e la nostra capacità d’analisi dei fenomeni politici? Non c’è inoltre il rischio, rinunciando a qualunque ‘contaminazione’ con la teoria o filosofia politica, di trasformare la politologia in una sorta di ‘scienza del presente’ priva di qualunque profondità storica e per di più incapace di incidere sulla realtà che essa pretende di spiegare? Si può fare buonca ricerca (sul lato empirico) senza aver prima approfondito (sul lato teorico) il significato dei concetti, delle formule e delle parole che si utilizzano? Il panel intende sollecitare una riflessione critica su questi diversi interrogativi, anche attraverso il contributo di riflessione che ancora oggi possono dare i classici del pensiero politico novecentesco.
2.2 Tornare alla teoria (politica)? Per una discussione sulla condizione degli studi politici in Italia

Chairs: Alessandro Campi, Damiano Palano

Discussants: Damiano Palano

"Partitocrazia": The Life and Times of an Idea, between History and Theory
David Ragazzoni
AbstractMy paper addresses the theme of the panel, and its call to crumble the wall between disciplinary boundaries, through a specific case study. It draws on political history, political thought, and the history of ideas to revisit, contextualize, and connect some of the most salient chapters in the history of the notion of “particracy” (partitocrazia) throughout the unfolding of Italian democracy. By doing so, it seeks to unearth the insights that the trajectory of pre-populist antipartyism can offer to better grasp the nature, and implications, of populist antipartyism in contemporary democratic theory and practice. Democratic theorists and political scientists agree on interpreting antipartyism as a symptom of senile representative democracies. This diagnosis rests on two main axioms. First, it is assumed that political parties are constitutive of healthy democracies and valued as both necessary (at electoral, organizational, and institutional levels) and legitimate (no longer identified with the carriers of factional stands). Second, it is believed that what triggers widespread public disaffection with parties is their degeneration, from “parties on the ground” into “parties in central office”, no longer performing at once procedural and representative functions but merely exercising or pursuing power for the sake of their own survival. As a corollary, antipartyism purportedly underpins the decay of party democracy, and supposedly constitutes the pinnacle of the crumbling legitimacy of parties as the quintessential form of political agency (e.g., Manin 1997; Mair 2002, 2013; Ignazi 2017). More specifically, the portrait of the history of representative government and its principles painted by Manin assumes that parliamentary democracy and party democracy overlap. They both presuppose that political parties have secured legitimacy in non-direct democracy and successfully emancipated themselves from a long history of despise and mistrust, in which they were identified with factions and the corrupting plague of private interests. Another defining contour of his painting is the idea that parliamentary democracy constitutes an endogenous mutation of representative government, from a stage when parties were merely networks of local notables (“liberal parliamentarism”), to a stage in which party machineries became a necessity for making both politics and institutions work (“party democracy”). Finally, the implication of Manin’s book is that antipartyism signals the twilight of the hegemony of parties and marks the shift towards a new vision and practice of democracy, no longer based on intermediary political bodies and active participation but on charismatic leaders, the expertise of spin doctors, and the primacy of the “audience”. The paper demonstrates that the life and times of Italian antipartyism is more complicated than what Manin’s stadial theory suggests. Arguments about the bad scent of parties have not been a prerogative of the most recent decades of Italian politics, nor have they abruptly emerged and developed as a watershed between the fading age of “party democracy” and the rising era of “audience democracy”. Antipartyism fueled political debates since the very dawn of democratic Italy, before its Constituent Assembly was elected, and it revamped among the Constituents (especially the liberals and the monarchists), before its Constitution was even enacted. Deep-seated hostility to parties has been a congenital feature of Italian democracy since its very beginning and has run consistently throughout its trajectory across the decades, from the mid-1940s up to the present. Antipartyism, rather than the appreciation of parties, is what gives cohesiveness to the history of Italy’s party democracy. The constituent paradox of Italy’s party democracy – i.e., its being, at once, a creation of parties and a powerful fuel of antipartyism – has received virtually no attention in the revived study of parties in Anglo-American democratic theory. Historical and normative works in this recent body of literature have predominantly focused on the American context (Rosenblum 2008; Gutmann-Thompson 2010; Muirhead 2014; for a partial exception, see Rosenbluth-Shapiro 2018, pp. 186-190) or conceptualized partisanship along transnational lines (White-Ypi 2016). At the same time, Anglophone scholars who have turned to Italy as an ideal-type of the presidentialization of parliamentary democracies (Poguntke-Webb 2005) have traditionally privileged the latest twenty years of its political trajectory (from the advent of Berlusconi in 1994 to the recent success of the Five Star Movement) – i.e., the unraveling, rather than the golden age, of Italian party democracy. Those who have written influentially about Italian democracy in English have neither captured nor explored the contradictory foundations of Italy’s antiparty party democracy (e.g., Spotts-Wieser 1986; La Palombara 1987; Hine 1993; Putnam 1993; Furlong 1994). Finally, the origins of “particracy” before the official advent of party democracy in post-Fascist Italy is often mentioned but seldom explored in the extensive Italian literature on the vicissitudes and contradictions of Italy’s “Republic of Parties” (Coppola 1997). After the introduction (Section I), the paper proceeds as follows. Section II (“Italy’s party democracy: Not yet born, already on trial”) explores draws on intellectual and political history to retrieve the neglected origins of the label “partitocrazia” (particracy) – a term coined in the mid-1940s by the liberal monarchic Roberto Lucifero d’Aprigliano to reject political parties at a time when party democracy had not even started to operate. Unlike conventional accounts, my paper explores the philosophical and political writings of Lucifero (especially his 1944 book Introduzione alla libertà) to prove that both expressions of his antipartyism – the one running through his political theory and the one fueling his political practice – resorted to very similar arguments and were part of the same intellectual project. Section II also examines the proliferations of the term “partitocrazia” in the immediate aftermath of the birth of the Italian Republic, when it entered the broader public sphere first through the editorials of Arturo Labriola and then evolved into a distinctive political paradigm in the writings of Giuseppe Maranini. However, such proliferations of references to the term “partitocrazia” did not make the notion itself any less elusive. It was not until 1963 that the first scholarly definition of “partitocrazia” was provided by leading political scientist Giovanni Sartori in his volume Il Parlamento italiano, 1946-1963 (the first systematic study of the Italian Parliament), wherein he distinguished between “electoral”, “disciplinary”, and “integral” or “literal” forms of “partitocrazia”. Section III (“Antipartyism in Italian party democracy”) outlines the life and times of the idea of “particracy”, and its underlying anti-party mindset, after the enactment of Italy’s democratic Constitution. In the second half of the 20th century, debates over the oligarchic degenerations of parties progressively merged with critiques of Italy’s parliamentary system. The partisans of antipartyism increasingly employed the argument of “particracy” to describe parliamentarism gone wrong – that is, a deteriorated form of representative democracy in which parties, far from exercising their institutional power responsibly and responsively, were primarily concerned with exploiting the institutional mechanics of Italian parliamentary democracy to play a game of mutual vetoes and thus keep the executive under their thumb. Dissatisfaction with the perfectly symmetrical configuration and functions of bicameralism Italian style started emerging in the early 1950s and has ever since become one of the signature themes of its political life. As I show, the history of this dissatisfaction is roughly articulated in two major phases. In the first one (early 1950s-early 1980s), the idea that “particracy” was a congenital disease of Italian bicameralism generated a plethora of analyses and debates by and among intellectuals, politicians, and scholars of various backgrounds, outside representative institutions. In the second phase (early 1980s-present), worries about parties cannibalizing democracy began to resonate widely – almost obsessively – among elected representatives and soon turned into a tentative institutional project. Ever since then, several (failed) attempts have been made to envision constitutional reforms that would constrain parties’ prerogatives inside the legislative, enable more stable governments, and eventual redesign the physiognomy of the Italian Republic. Finally, section IV (“From “We, the people”, to “I, the people”) emphasizes the relevance of the Italian debates on “particracy” for the study of populism, and its critique of parties, in contemporary political theory and science. A study of Italy’s pre-populist antipartyism, the paper shows, suggests three main conclusions that are relevant for ongoing debates on populism. First, it challenges the stadial vision of the life and times of representative government and the related assumption that antipartyism, or the crumbling legitimacy of parties, signals the decay of party democracy. Second, it shows that in modern representative government the alternative to parliamentary democracy (based on party pluralism and compromise among parties) is inevitably plebiscitary democracy (based on consensus and plebiscites). Finally, it reveals that the critique of party politics within and without the legislative is often part and parcel of a broader institutional (re)vision, in the attempt to constrain parliamentary deliberation and empower the executive (and its leader) over the legislative (and its parties).

Sulla normatività immanente. Per contaminare teoria politica e teoria critica
Marco Solinas
AbstractL’analisi del rischio a cui è dedicato questo panel – la trasformazione della politologia in una sorta di ‘scienza del presente’ incapace di incidere positivamente sulla realtà – credo possa giovarsi anche del confronto con la metodologia adottata nell’ambito della filosofia sociale e politica contemporanea che si ispira alla tradizione della teoria critica tedesca. Penso in particolare a quelle impostazioni che insistono sulla rilevanza di un tipo di normatività che non sia quella ormai classica di John Rawls, considerata troppo astratta, né dell’orientamento formale-proceduralista sviluppato da Jürgen Habermas. Piuttosto, sulla scorta dei contributi di autori di diversa estrazione disciplinare quali Michael Walzer, Axel Honneth e Luc Boltanski – fino ad ora soltanto parzialmente recepiti in Italia – si insiste su più fronti su una normatività “interna”, “incarnata” o “immanente”: i cui criteri siano perlomeno in parte già adottati nei costumi, nelle pratiche; diciamo nella sfera della Sittlichkeit. L’obiettivo teorico prioritario di questo approccio, quindi, non è tanto di “fondare”, né tantomeno di “costruire” le forme della normatività, quanto piuttosto di reinterpretare, riattivare, e sviluppare in chiave emancipatoria gli elementi normativi già presenti nel contesto socio-politico dato di volta in volta. Delineati i presupposti teorici generali di questo tipo di normatività immanente, nel paper declinerò poi il tema dal punto di vista della problematizzazione del ruolo dell’intellettuale, o del critico sociale, e più in generale dell’attività critica. Da questa prospettiva, uno degli elementi salienti che viene a co-determinare l’auspicata incisività dell’attività critica è infatti la sua correlazione con le forme del politico: nella tematizzazione dei criteri normativi storicamente dati non si può astrarre dai conflitti che rispecchiano gli interessi contrapposti di volta in volta in gioco, poiché si riflettono più o meno direttamente anche sul piano della interpretazione dei principi e delle norme date. Procedendo in questa direzione, la “contaminazione” tra teoria politica e filosofia politica auspicata in questo panel credo si riveli feconda su entrambi i fronti: mentre l’analisi filosofico-sociale viene ad ampliarsi alla dimensione più strettamente politica inerente ai conflitti normativi in gioco, la teoria politica può riferirsi a una forma di normatività che anziché procedere in modo astratto e procedurale muove dall’immanenza dei criteri dati di volta in volta.

Uses of the elite theory in IR: an analysis of the civilisational paradigm using the approach of the political theory
Patricia Chiantera
AbstractThe interpretation which uses civilisations as the main unit in order to understand and foresee the main developments in IR has spread after the Second World War with the theories elaborated by Toynbee and then Huntington. The so-called civilisational paradigm, which had a meaningful impact on pulic opinion and politics, has been considered as a model useful in order to study the relation between States od continents, or even international agencies and actors. In my contribution I will look at this literature from a different perspective, i.e. from the point of view of the political theory. I will investigate Toynbee and Huntigton's works looking at their idea of power, at the power relations inside the society, at the separation between masses and elites inside the Western sopciety and in the international arena. My aim is to show that the use of the methods and approaches of the political theory will make much clearer the real aims and origins of the civilisational paradigm and the political message and meaningn of the civilisational model. In particular, by using this approach, I will show the answers that these two authors give to the question of the possibile decline of Western elites and of the co.-existence of the Western with other civilisations. I will do so, by keeping in mind the elites' theory elaborated by Michels, Pareto and Mosca, as well as Weber's approach on power and Gramsci's view of hegemony. I will therefore show that the main "fear" which inspires Toynbee's work concerns the future inability of the Western wolrd to cope with cultural changes provoked by the growing power of non-western civilisations. Toynbee’s fear is represented by the growing rigidity of the elites, that leads to the disintegration of a society: “a creative minority degenerates into a mere dominant minority which attempts to retain by force a position hich it has ceased to merit, this fatal change in the character of the ruling element provokes, on the other side, the secession of a Proletariat which no longer spontaneaously admires, olr freely imitates the ruling element, and which revolts against the status of an unwilling “underdog”” . Then society begins undergoing a “time of trouble” which can last many centuries – and which possibly reflects the situation of the Western civilisation at the time – i.e. just before and after the Second World War. The dissolution of what we could call the “moral unity” of a civilisation leads to the separation of the elites from a internal and an external Proletariat: the internal – i.e. the horizontal one between segregated classes - giving way to forms of alternative kind of belief, i.e. to a “universal church” opposed to the “universal State”, which is nourished by the declining minority; the external – vertical, between geographically segregated communities – rising barbarian war bands. The end of the decaying cycle leads possibility to the formation of a new alternative creative minority, formed by the synergy of the internal and the external proletariat. Concerning Huntington, I will demonstrate that his reconstruction of the international relations as "clash of civilisations" is much more clear and understandable if we look at his idea of Western elites and of their role in the global society. Huntington’s main target is therefore to deny the conditions for a plural and multicultural society, that de facto shows the impossibility of any homogeneous civilization bloc. This is clear in his attack against the de-westernization of western elites and in his plea for the American cultural leadership in the Western civilization as well as in his definition of “Davos men”: “whether the West comes together politically and economically -he affirms - depends overwhelmingly on whether the United States reaffirms its identity as a Western nation and defines its global role as the leader of Western civilization”.1 As a matter of fact, the Western civilization is not a reality in Huntington's interpretation: it is rather a task to be fulfilled by the American elites, which implies that Western elites should possibly “westernize” their civilizational bloc. At the same time, the common opposition against an enemy is the best way to achieve this sort of mobilization and homogenization of a culture against another culture, that is supposed to be homogeneous and united. Huntington argues here for a typical realistic conservative approach in domestic policy and for new Atlanticism in international relations: “only an appreciation of power politics can counter business drift towards East Asia, while Americanization counters the de-Westernizing threat of multiculturalism. Both are aspects of an internal ideological-cultural project driven by an external dynamic – the so-called civilizational threats. Only a foreign threat can prevent these corrosive forces combining to pull apart the country”. In that way I will show the usefulness and relevance of a theoretical political approach, and in particular the elite tehory, in order to understand some models that are normally studied as paradigms of IR. I will show that the political theory can help the reaseach in order to understand the political and academic literature, its origins and aims.

 

Panel 2.3 Democrazia impolitica


Nell’ampio dibattito sulle trasformazioni della democrazia, alcuni studiosi hanno utilizzato l’espressione «democrazia impolitica» per descrivere la mancata rispondenza tra interventi e aspettative sociali e l’idea di un’area politica capace di offrire consistenza e coerenza a tali attese. In breve, secondo questa accezione, la crescita della democrazia – specialmente attraverso l’adozione di una serie di forme indirette di partecipazione – è stata accompagnata da un declino del politico. E, infatti, i principi della «democrazia impolitica» tendono a neutralizzare gli elementi tipici della vita democratica: dalla decisione a maggioranza, alla contrapposizione tra posizioni distinte e distanti, alla controversia, al disaccordo. A ben guardare, però, le dimensioni «impolitiche» della democrazia (e della politica in generale) non sono esclusivamente il frutto di discussioni recenti, ma sono state indagate nel corso dei decenni da diversi studiosi, in maniera certamente variegata, ma capace di offrire notevoli spunti di riflessione anche al dibattito odierno.
Dentro questa ampia, ma ben definita, cornice, si sollecitano interventi con l’obiettivo di analizzare in profondità questa tendenza. Si indicano quindi i seguenti temi, anche se a puro titolo esemplificativo: l’analisi a livello teorico del concetto di «democrazia impolitica» secondo le sfumature che i diversi interpreti ne hanno voluto offrire, proponendo eventualmente delle comparazioni tra differenti autori; la riflessione critica sull’utilizzo dell’espressione «democrazia impolitica» all’interno del dibattito sulla crisi della democrazia (intesa anche come sinonimo di «democrazia depoliticizzata»); l’individuazione e la contestualizzazione degli attori che promuovono la «spoliticizzazione» e gli effetti che questa può determinare sui sistemi sociali, economici e politici.

Chairs: Francesco Gallino

Antonio Gramsci tra realismo politico e educazione delle masse
Paolo Ercolani
AbstractScopo della relazione è quello di mettere in evidenza come la figura di Antonio Gramsci, riferendosi anche ad alcuni aspetti della lettura fornita da Bobbio, si staglia in una posizione mediana rispetto al materialismo economicistico e deterministico da una parte, e alla teoria delle élite dall'altra. Entrambe queste teorie, seppur per ragioni diverse che saranno specificate, escludono l'intervento delle masse popolari in senso positivo, relegandole piuttosto al ruolo di esercito umano per una sempre rimandata rivoluzione, che nel frattempo consente la dittatura elitaria del "Partito" (per un verso), oppure a quello di opinione pubblica esposta alla manipolazione dell'abile oratore o condottiero di turno (per l'altro). La teoria gramsciana, invece, anche a fronte di una per taluni aspetti profetica rivalutazione del momento "sovrastrutturale", pur non rinunciando al realismo politico (ogni teoria è sempre inserita in un determinato contesto storico, all'interno di rapporti di forza definiti e, quindi, legata a una prassi specifica), prevede il momento dell'educazione delle masse come declinazione fondamentale di quella che egli chiama filosofia della praxis. Tale aspetto consente non soltanto di definire la figura (eterodossa ed eclettica al tempo stesso) di Gramsci all'interno della teoria politica nazionale e internazionale, ma anche di coglierne l'attualità in un'epoca che, come la nostra, vede un ritorno preponderante di movimenti politici che della demagogia fanno il proprio tratto portante. Svelando ancora una volta come la demagogia stessa sia soltanto l'altra faccia della teoria (e prassi) dell'élite. All'interno di questo percorso che incrocia la lettura di Bobbio e il confronto con gli elitisti, si proverà a dimostrare la connotazione eterodossa del pensiero di Gramsci (all'interno del marxismo), la netta opposizione rispetto alla teoria dell'élite, nonché la possibile attualità del suo pensiero.

Contro la democrazia impolitica: leaderismo, plebiscitarismo e partecipazione politica nel pensiero liberale francese post-rivoluzionario
Giuseppe Sciara
AbstractCom'è noto, la crisi profonda che negli ultimi decenni ha investito le democrazie occidentali si è accompagnata a una progressiva svalutazione della dimensione politico-istituzionale tipica della democrazia liberale. Non a caso, tale processo ha riportato al centro del dibattito e di certe pratiche politiche non soltanto forme di democrazia diretta – ma non partecipativa – che sconfinano spesso in forme di plebiscitarismo, ma anche tentativi di ridefinire il rapporto tra leader politici e popolo bypassando il ruolo dei partiti e negando l'importanza della discussione nelle sedi istituzionali. L'intervento intende riflettere su queste tematiche in una prospettiva storica, concentrandosi in particolare sul pensiero di alcuni autori liberali (Benjamin Constant, Madame de Staël, François Guizot, Pierre Royer-Collard) che nella Francia post-rivoluzionaria si interrogarono su pregi e difetti del sistema rappresentativo alla luce delle esperienze del Terrore e del bonapartismo.

De gustibus non disputandum est: forme di neutralizzazione del conflitto politico
Camilla Emmenegger
AbstractAll’interno della discussione intorno alla categoria di “democrazia impolitica”, al potenziale di spoliticizzazione intrinseco alla democrazia, risulta particolarmente utile approfondire la considerazione che, in essa, riveste la figura del conflitto politico. Il presente contributo mira a vagliare l’ipotesi secondo cui il conflitto politico – inteso non solo come scontro violento, ma anche semplicemente come interazione sociale oppositiva all’interno dell’arena politica – venga sempre più rappresentato e percepito come un fenomeno esecrabile e dannoso, a fronte di un’ideale di politica come spazio interamente pacificato. Il tema del rapporto tra conflitto e politica è, come noto, estremamente esteso e variegato, e altrettanto lo è quello della sua pacificazione. Il contributo intende mettere in luce alcuni tratti della rimozione contemporanea del conflitto, concentrandosi in particolare su due dinamiche – strettamente connesse –che coinvolgono la rappresentazione contemporanea della politica: la privatizzazione e l’estetizzazione della sfera politica. Conformemente alla prima, l’opinione politica costituisce sempre più una questione privata, una scelta soggettiva e personale: il famoso slogan femminista “il personale è politico” viene qui ribaltato nel suo opposto, “il politico è personale”. Intervenire in merito alla posizione politica di qualcuno, criticandolo o cercando di fargli cambiare opinione, rappresenta un’intromissione nell’intimità altrui. Inoltre, questo confinamento della dimensione politica nella sfera personale si appoggia spesso su un registro estetico: l’estetizzazione non consiste tanto nella spettacolarizzazione della politica, né – con Benjamin – nell’uso dell’estetica a fini politici, quanto piuttosto nella riconduzione della politica a una questione di gusto personale. Operazione che permette di disinnescare qualunque forma di critica, perché “sui gusti non si discute”. La rimozione contemporanea del conflitto politico sembra fondarsi su un ideale di politica pacificata: in cui la pacificazione, però, non si configura come omogeneizzazione (tutti devono pensarla allo stesso modo), ma come giustapposizione di opinioni differenti e non comunicanti, come coesistenza senza interazione (ognuno deve essere libero di pensare quello che vuole, basta che se lo tenga per sé; la critica e la contestazione equivalgono alla lesione di un diritto). Un’ideale che abdica completamente al carattere agonale e dialogico della democrazia.

Oltre la disintermediazione. I corpi intermedi e la politicizzazione della democrazia
Antonio Campati
AbstractUn consolidato filone di studi ha fornito molti validi elementi per definire come post-politica l’epoca nella quale viviamo, caratterizzata dal declino del politico come spazio nel quale le dinamiche umane collettive possono trovare un terreno fertile nel quale svilupparsi e scontrarsi. Allo stesso tempo, sono altrettanto numerosi gli studiosi che hanno individuato nella crisi dei corpi intermedi una delle cause principali della più generale «crisi della democrazia». Il presente contributo ha come obiettivo principale quello di far emergere le connessioni che sussistono tra questi due percorsi di ricerca. In particolare – anche attraverso una breve ricostruzione della genesi e delle trasformazioni dei corpi intermedi – si cercherà di discutere criticamente la nozione di «disintermediazione» che viene assunta come uno dei frutti più puri del discorso impolitico sulla democrazia. L’intento finale è quello di sottolineare come la democrazia (rappresentativa) sia strutturalmente basata su una serie di relazioni di mediazione che ne garantiscono il pluralismo e, quindi, la natura intrinsecamente politica; se si pensa di annullarne lo spazio della mediazione ne consegue che anche la dimensione rappresentativa viene meno, generando così un cortocircuito concettuale che è fonte di molti malintesi sul suo effettivo funzionamento.

 

Panel 2.4 Identities and Identifications: Politicized Uses of Collective Identities


Identity is one of the crown jewelries in the kingdom of ‘contested concepts’. The idea of identity is conceived to provide some unity and recognition while it often entails the complete opposite, namely separation, differentiation and antagonism. Few concepts have been used as much as identity for contradictory purposes. No matter what, starting from the seemingly fragile individual identity as a self-solidifying framework, identity presents us its multifaceted nature, especially in social and political sciences that aim to better understand the socialized in-group and inter-group identities, namely the collective and multi-layered identification, socially constructed through family, religion, ethnic group, regions, nation-states, supra-national entities etc. Politics-wise, identity shows up in the core of contemporary debates and makes everything either too dangerously simple or too complicated to cope with. Constructivist and de-constructivist approaches have led to the same conclusion: the eternal return of the topic as a relevant, not to say influential, factor. As a result of the diverse aspects of identity, the concept needs continuous refinement. By approaching and addressing its inherent complexity, a dynamic analysis should be provided in political research (which has often left the issue to sociology). The latter is highly necessary vis-à-vis the changing and uncertain outcomes of the recent global crisis. Yet, it cannot be trivialized. It must commence with two dialectical interrogatives: 1. if identities are socially constructed and are not natural formations, in what way and to what extent do they hold responsibility for inclusion\exclusion, self-other dichotomies? Looking at identities in social research provides explanatory tools for a wide variety of events and social dynamics to be better contextualized; 2. Since identities reflect the complex nature of human societies and engender far-reaching processes (e.g. shifts in political regime, armed conflicts etc.), what are the dynamics between the former and politics?

That said, studying identities usually generate reasonable comprehension for processes that cannot be explained by tracing pure rational driven pursuit of interests. The feelings of attachment, belonging, recognition, the processes of values’ formation and norms integration, the logics of appropriateness generated in social organizations are all arenas which rely on a certain type of identity or identification. Multiple identifications overlap, interact, include or exclude, conflict or enhance trust and cooperation. Identities create boundaries and borders; define the in-group and the out-group, the similar and the excluded, the friend and the foe, the 'self' and the ‘other’.

Beyond their dynamic fuzzy nature that escapes exhaustive explanations, identities are effective instruments of politicization of social life. The construction of social forms of organization and of specific social practices together with their imaginary significations requires all the time an essentialist or non-essentialist legitimating act of belonging; a social glue that extracts its cohesive function from the identification of the in-group and the power of naming the other. Identities are political. Multicultural slogans populate extensively the twenty-first century. Yet the distance between the ideal and the real multiculturalism persists while the virtues of inclusion coexist with the adversity of exclusion. Thus dealing with identities means to integrate contestation into context. Due to the confusion between identities and identifications some scholars have demanded that the concept of identity should be abandoned. Nonetheless, identity-related issues keep emerging out of political discourse, as identity-based claims have turned out to be efficient tools for politicization of a ‘constraining dissensus’ (e.g. nationalism, populism and other forms of ideological radicalization). While the universalizing terms which have supposedly replaced national identities, current affairs demonstrate the (re)making of identities that tend or intend to obscure the former either by offering local and subnational identities or supranational and federalist identity projects. Therefore, identities are often conceptually used as rather intentional concepts, - they don’t say much about their sphere but rather define the sphere itself-, thus make explicit the aim of their usage. It is not ‘identity of’ but ‘identity to’.
The purpose of this panel is to develop a new research network that is dedicated to exploring the conceptual, empirical and methodological challenges and opportunities identity-related research can offer to the wider field of political studies. The panel 'Identities and Identifications: Politicized Uses of Collective Identities' wishes to contribute to the debate about the dialectical and dynamic role of identity in politics as well as the other way round. Furthermore, it seeks to apply a trans-disciplinary framework of a concept that has received little attention in mainstream political research. Consequently, it may provide the right occasion for both scholars of political and social sciences to interact on this increasingly relevant subject. Hence, this research network will bring together those working on empirical and theoretical studies that examine a range of different uses of identity, in order to develop new ways of thinking about, and applying the concept of identity in research.
Key-words: identity, identification, politics, political theory, methodology

Profile of the participants and type of papers
The Panel ‘Identities and Identifications: Politicized Uses of Collective Identities’ aims to scrutinize the state of the art in collective identities research, to bring into debate the processes of identity- making\building in both constructivist or de-constructivist dimensions. The aim is to open the floor for dynamic multi-dimensional and inter-disciplinary understandings of identities in their historic formation as well as in the way they shape the present and future of political life. As the panel aims to bring together political and social researchers who are willing to share and open to debate by proposing their research on identity related topics, we invite papers that explore the current state of identity within the realm of politics in Europe and around the world. The panel particularly encourages disciplinary, trans and inter-disciplinary approaches (namely political theory, political sociology, political anthropology and political philosophy) which use different methodological assessments and modalities, such as single case studies and\or cross-sectional analyses, and that address political identities and identifications. Some politically and inter-related questions concerning the issue can be of help:
• How does identity influence the politics of exclusion or inclusion within national\ international politics?
• How do identity related concepts such as race, religion, gender, sexuality and class structure get politicized in different contexts and at different levels (national/transnational)?
• How do identities shape alliances or conflicts between different sociopolitical collectivities?
• What are the strategies, tactical repertoires and identity-building practices politics forge in times of crisis?
• What are the methodological tools that must be developed to better introduce the concept of 'identity' to political research?

This panel aims at providing a critical reflection on both the historic and conceptual use of identity and identification in politics as well as at facilitating empirical and theoretical analyses of future directions for identity studies to take in social and political research.
2.4 Identities and Identifications: Politicized Uses of Collective Identities

Chairs: Emmanuele Quarta

Discussants: Emmanuele Quarta

Top-Down vs. Bottom-Up: Studying Actors Involved in the Process of European Identity Construction in Italian Online Public Sphere
Elizaveta Matveeva
AbstractThe paper discusses preliminary results of the project that analyses a variety of actors involved in the process of European identity construction in Italy and of a variety of European identity frames they offer to the Italian general public. Taking into consideration the results and both methodological and conceptual findings of Europub.com and INTUNE projects, this analysis offers a different perspective on relationship between Italians and Europe. It departs from the assumption that creation of a feeling of common belonging to Europe can be regarded as a manageable process. This implies that common identity construction is presumably guided by individuals, groups, organizations or institutions who strive to take a role of ‘opinion leaders’ capable of influencing others. It doesn’t necessarily mean, though, that this process is centralized or vertically structured. On the contrary, these ‘influencers’ tend to build up multivariate and multicomponent networks. This paper seeks to evaluate how much institutional and civil society actors of different levels (European/international, domestic or local) are involved in European identity construction and to determine the way in which they are interconnected. The study is based upon a modified version of political claims analysis which was previously applied in research of social movements and civil society organizations in the context of Europeanization(s). Instead of using a distinction between a ‘claimant’, an ‘object actor’ and an ‘addressee’ it introduces a new actors’ typology on the basis of their functional differentiation. Those of them who provide financial support (as donors), disseminate information, organize events (as mediators) or make statement on their preferred model of ‘true Europeanness’ and its elements (as claimants) are equally engaged in European identity construction process within different networks proposing/promoting different models of European identity. The analysis relies on manually coded data retrieved from Italian online media and other online resources.

Who is European?
Priya Sara Mathews
AbstractEurope has been accused of suffering from an Identity crisis; this has been pointed out as being the cause for many of the problems facing Europe today (Andre, 2015; Pavan, 2011). Like most philosophical questions, questions on Identity and Self are nothing new. To be or ‘Being’ was considered by leading philosophers to be intrinsically connected to our ability to think. The modern idea of identity however, a more sociological perspective, is the essence of a person. It is one that is formed by commitments and identifications that provide a framework within which one can try to determine what one considers to be of value or what needs to be done. It is the basis on which one is capable of taking a stand (Taylor, 1989; Shoemaker, 2006). However, as John Donne famously wrote, “No man is an island” and thus consciousness of self leads to consciousness also of other ‘selves’. Charles Taylor, in fact, believes that the ‘self’ needs others to be defined. “one cannot be a self on one’s own. I am a self only in relation to certain interlocutors… A self exits only within what I call ‘webs of interlocution’” (Taylor, 1989, p. 36). Therefore, identity can only be properly described within the framework of a community. A universal European Identity is a relatively modern concept(Lupo, 2003). After spending centuries mired in bloodshed that culminated in two horrifying world wars, the likes of which had never been seen before, the European countries decided to unite to strive for a peaceful existence. This was the fundamental idea behind the formation of the European Community and its subsequent evolution into the European Union (EU) (Katzenstein, 2009; Cerutti, 2001). However, hopes that the economic union would, over time, grow into a political union, has remained just that. Moreover, the increase in nationalism in European states and the growing Eurosceptism makes one wonder if indeed the European project itself has failed. Nevertheless, ever since its inception, the European Union has looked towards forming a collective European Identity, as this would be the strongest way in which to ensure its legitimacy with the European people and set itself up as an international player of significance. Furthermore, researchers believe that it is necessary for people to consider themselves as part of something bigger in order to move towards a goal(Petersson, 2002; Papadopoulos, 2011). The paper will consider the successful and unsuccessful ways in which the EU has attempted to construct a European identity. Furthermore, it will look at some of the unintended consequences of this process. key words: identity, identity formation, European Identity

The Sense of home, belonging and identities: Narratives of Three-Generations of Kurdish Women in Diaspora
Orkide Izci
AbstractThis paper analyzes the meanings of home, belonging and identities found in the biographical narratives of three generations of Kurdish-Alevi women who come from Turkey and live in diaspora(s). Blunt and Dowling (2006) argue that home must be considered as both a spatial imaginary (the relations between feelings, attachment, and dwelling) as well as a political space of negotiation and contestation. Home is used as a metaphorical concept to explain more complicated concepts like a sense of belonging and identities. The sense of belonging suits well to this study in order to show not only the change from one generation to other; it shows also the social change because our experiences of belonging are dynamic and sensitive to changes since ‘self’ and ‘society’ are interconnected and cannot be analyzed separately (Simmel 1964; Elias 2001; May, 2011). Sense of home, belonging and identities are all correlated. To an extent, identity is created in self-conscious experience; but it is also influenced by forces, not of our own choosing such as those associated with politics, economy, culture and the social position and geographic setting into which we are born then raised (Perkins and Thorns, 2011). Keeping present the idea of identity as a self-conscious experience related to one’s own life story but also influenced by other elements, this thesis will show how three generations of Kurdish women create and recreate their identities through the concept of belongings and sense of home following Bourdieu’s ‘home as a culturally constructed concept’ where “feeling at home is not natural at all”. The sociological analysis of ‘de- territoriality’ and displacement is guided by the issue of how displaced populations deal with questions of ‘home’ as a concept of belonging such as origin, diaspora, and identities. This paper analyzes the relationships between the collective memories, life stories, migration and diaspora elements in making and re-making homes and identities. This intersectional study will show what does it feel like to feel at home in the sense of belonging: what is home, how diaspora influences/forms/changes the idea of home, how the host country influences the idea of home, what are the generational transmissions of the sense of home, belonging and identities?

 

Panel 2.5 Neoliberalismi: una questione politologica (I)


Nel 2005 gli economisti Alfredo Saad-Filho e Deborah Johnston introducevano un volume intitolato Neoliberalism. A Critical reader scrivendo: «viviamo nell'epoca del neoliberismo». A un concetto che indica una dottrina politico-economica veniva così attribuito il ruolo di definire un'intera fase storica. Nello stesso anno veniva pubblicato anche A Brief History of Neoliberalism di David Harvey, che proponeva una ricostruzione storica di questo ciclo politico-economico, individuandone l'inizio nel triennio 1978-80. Queste due opere si inserivano in un dibattito, cominciato a partire dai primi anni del nuovo secolo, nel quale l'uso del concetto di neoliberalismo nelle scienze politiche e sociali è diventato sempre più frequente per indicare la molteplicità di trasformazioni politiche, sociali ed economiche in atto nel mondo contemporaneo. Come ha evidenziato Mathieu Hilgers in tale dibattito sono riscontrabili sono due differenti approcci: uno che affronta il neoliberalismo da un punto di vista teorico, come composita dottrina politico-economica, ed uno che invece lo affronta da un punto di vista pratico, come insieme di esperienze storiche riconducibili a tale dottrina. Il panel si propone quindi di ospitare contributi di studiosi che si occupano di tali questioni, nell’intento di far interagire l’approccio teorico con quello pratico. In particolar modo si sollecita la partecipazione di contributi che abbiano per oggetto:
- Neoliberalismo teorico; singoli aspetti trasversali o ricostruzioni complessive delle tre diverse scuole dell’ordoliberalismo tedesco, del neoliberalismo austro-americano, e della Scuola di Chicago, oltre che delle più recenti formulazioni del neoliberalismo manageriale; affinità e specificità dei neoliberalismi teorici e continuità e discontinuità tra essi ed il liberalismo classico.
- Neoliberalismo pratico; primi esperimenti (Repubblica Federale Tedesca e Cile), governi neo-conservatori degli anni Ottanta, neoliberalismo progressista, ristrutturazione delle economie nazionali ispirati dalla dottrina del Washington Consensus, processo di integrazione europea, governo della crisi del 2008, specificità del caso italiano.
2.5a Neoliberalismi: una questione politologica

Chairs: Olimpia Malatesta

Discussants: Marco Almagisti

Cosa intendiamo quando diciamo neoliberalismo
Alfredo Ferrara
AbstractCome ha scritto Rajesh Venugopal, il concetto di neoliberalismo «è stato vittima del suo stesso successo»: dai primi anni zero in poi sempre più studiosi l'hanno adottato per indicare la matrice politica del complesso processo di ristruttuazione economico-sociale in atto in Occidente e proporne una genealogia. Questi usi sono stati molteplici, spesso evocativi e dotati di una scarsa portata connotativa. Nel presente contributo ci proponiamo di fare chiarezza, distinguendo tre usi possibili del concetto di neoliberalismo: 1) come ideologia politico-economica, 2) come progetto politico con ambizioni egemoniche presentatosi al mondo negli anni Ottanta, 3) come ciclo politico trentennale cominciato, per l'appunto negli anni Ottanta ed entrato in crisi nel 2008. Di tale ciclo politico proporremo inoltre una periodizzazione individuando due precedenti (la Repubblica Federale Tedesca ed il Cile di Pinochet) e tre ondate (quella neoconservatrice, quella del Washington Consesus ed infine quella del “neoliberalismo progressista”).

La strana non morte dei neoliberalismi in Europa. Una questione politica e ideale.
Massimo De Minicis
AbstractDalla metà degli anni ’90, nel sistema a capitalismo avanzato, una crescente interdipendenza e accresciuta competizione tra le nazioni, identificata nel concetto teorico della globalizzazione ha determinato le basi concettuali per identificare nello stato sociale del periodo post-bellico europeo un lusso non più sostenibile “in the Swedish debate, it is commonplace that the egalitarianism of the 1970s was not sustainable, and that equality must, to some degree, be sacrificed at the altar of efficiency” (Crouch, Streek 1996). Negli stessi anni gli ambienti politici dell'Unione europea, hanno rappresentato una argomentazione teorica secondo cui la globalizzazione presentava una serie di sfide devastanti di fronte alle quali dovevano essere ridefinite le modalità nazionali di governance del welfare e del sistema delle relazioni industriali. Ciò sembra aver determinato una serie di vincoli esterni per le forme di organizzazione della società prodotti attraverso un processo di costante istituzionalizzazione e normalizzazione di tali presupposti teorici. Si è andata, così, affermando una sorta di traiettoria neoliberale che ha percorso le diverse forme di integrazione europea per rispondere in maniera efficace agli imperativi ideali di una nuova configurazione teorica dell'economia globale (Baccaro, Howell, 2011). Le forme di riduzione del welfare e le espressioni riformistiche di integrazione e "europeizzazione" guidate dal mercato hanno iniziato, quindi, a produrre risultati concreti nella società. Permeando idealmente sia la lettura dei processi di competizione economica globale che le forme di integrazione europea. Tali interpretazioni concettuali generate da una rinnovata teoria neoliberale sono servite a determinare radicali e concreti effetti che hanno compromesso il peculiare "modello sociale europeo" emerso e consolidatosi nel primo dopoguerra (Hay, 2003). Così una serie di ragioni ideali in assenza di evidenti conferme empiriche hanno assunto effetti costrittivi esterni e vincolanti sulle forme istituzionali “the truth effects of discourses of economic globalisation are somewhat independent of the veracity of the analysis” (Rose, 1996). Nelle analisi di (Streek, 2009,2011), (Harvey, 2007) e (Hay,2003) questo processo viene messo in luce chiaramente, individuando una particolare attitudine teorica del neoliberalismo nel trasformare concetti e prospettivi desiderabili in vincoli fortemente condizionanti. Per Streek, infatti, per comprendere la reale natura dei cambiamenti istituzionali nel modello welfaristico e delle relazioni industriali, dalla metà degli anni ’90, vi è l'esigenza di spostare l'attenzione dalle forme istituzionali e dalle sue logiche al capitalismo e alle sue logiche. Così le forme e la natura del cambiamento delle istituzioni non va ricercato nella evoluzione oggettiva delle forme politiche o sociali ma individuato è analizzato nell'evoluzione dei modelli economici produttivi. Non è, quindi, la storia delle istituzioni che determina una certa composizione del welfare, del sistema di regolazione delle protezioni sociali o delle relazioni industriali, ma è quella del capitale in quanto succedersi di politiche capitalistiche e semmai la storia del pensiero neoliberale che precede e determina queste politiche. Una storia neoliberale che ha comportato una ingente «distruzione creativa», non solo di strutture e poteri istituzionali preesistenti ma anche della divisione del lavoro, delle relazioni sociali, del welfare, degli assetti tecnologici, degli stili di vita e di pensiero, delle attività riproduttive, dell’attaccamento alla propria terra e degli atteggiamenti affettivi (Harvey, 2007). E’ Martin Craig, 2015 che rappresenta questa azione tipica del neoliberalismo come un tradizionale effetto roll back. Uno spianamento delle strutture a lui avverse non associabili e categorizzabili alle logiche di mercato, accusate di essere fautrici del ristagno, della caduta economica e della disoccupazione . Si è andato delineando, così, un processo di superamento dei principi e degli ideali della tradizione storica della socialdemocrazia britannica per riprodurre dinamiche della globalizzazione tendenti verso un modello di disembedded liberalism. In considerazione di queste analisi, ci chiediamo se nei primi anni post-crisi si sia sviluppata una generale presa d’atto di questo processo di storicizzazione. È lo stesso Crouch che prova a problematizzare la questione in un testo dal titolo esemplificativo “The Strange no death of the neoliberalism” (2011). Il titolo del libro di Crouch trae ispirazione da un pamphlet del 1936 di George Dangerfield dal titolo “The Strange Death of Liberal England” in cui si descrivevano le cause della fine, nella metà degli anni ’30, del potere dell’ideale, della retorica liberale e degli attori politici da esso ispirati. Crouch si chiede perché dopo il 2008 questo non sia avvenuto per il pensiero neoliberale. Affermandosi, invece, una lenta fase di contrastata no death della traiettoria neoliberista e delle sue forme retoriche costrittive globalizzazione e vincoli monetari comunitari. Così la narrazione della crisi sembra aver preso uno strano e non previsto tragitto che sembra aver decretato non solo una inaspettata non fine del potere ideale del neoliberalismo, ma piuttosto una sua rigenerazione alla fine di una crisi economica che questa volta sì, empiricamente, lo vedeva fortemente implicato.Obiettivo del paper proposto sarà, così, quello di analizzare le ragioni per cui le forme attuative dei diversi neoliberalismi, in Europa, che hanno pervaso da oltre un trentennio le agende politiche dei partiti conservatori e dei partiti di centro-sinistra (l'esperienza blairiana della terza e la sua contaminazione sulla agenda programmatica socialista europea) riescono a sopravvivere malgrado evidenze empiriche dimostrino la non più efficace attuabilità di tali presupposti ideali e politici.

L’Unione europea come progetto neo-liberale? Storia e critica dei neo-liberalismi nel processo di integrazione europea
Giuseppe Montalbano
AbstractIl paper proposto intende fornire una ricostruzione critica del processo di integrazione economica e monetaria europea come processo svoltosi entro la più generale ristrutturazione neoliberale del capitalismo internazionale, e allo stesso tempo catalizzatore di tali trasformazioni nei sistemi economici e sociali del Continente. Attraverso le lenti teoriche degli approcci neo-gramsciani nelle relazioni internazionali, i principali snodi storici della costruzione europea saranno analizzati come esito dei conflitti e compromessi fra progetti egemonici contrastanti. Tali progetti sono espressione di differenti varietà di neo-liberalismo, radicate in altrettante configurazioni di interessi socio-economici su base nazionale e transnazionale dispiegate attorno all’asse del conflitto fondamentale fra capitale e lavoro. I casi studio considerati si concentreranno in particolare sull’Atto singolo europeo, i trattati di Maastricht e Amsterdam, il piano di riforme del settore finanziario, il processo di allargamento dell’Unione nel centro-est Europa e il trattato di Lisbona. La tesi sostenuta è che l’Unione economica e monetaria e il mercato comune siano prodotto di un compromesso fragile fra due varianti dominanti di neo-liberalismo: una tipologia di “keynesismo privatizzato” di stampo anglo-sassone ed una di matrice ordoliberale, facente capo al sistema produttivo tedesco. La crisi dei debiti sovrani e la grande recessione hanno determinato la rottura di tale compromesso e l’accelerazione delle tendenze disintegrative dell’Unione europea già iscritte nella sua architettura istituzionale deficitaria. Le riforme della governance economica, finanziaria e fiscale adottate dopo la crisi segnano in questo modo l’emergere di un approccio neo-liberale “repressivo” e incoerente, che segna l’incapacità delle élite europee di ricostruire un modello egemonico sostenibile.

Neoliberalism, the state and law. Critique and periodization
Adriano Cozzolino
AbstractThe shrinking state is a persistent myth of the neoliberal era. While ‘less state’ rhetoric concerning the state and the role of the state continues to be a persistent feature of contemporary societies, little research is made about the reality of state transformations in the neoliberal era. All the more so that, especially in the 1990s, a wave of debates framed the state as an obsolete reality vis-à-vis the global political economy. Yet, the rise of right-wing populism and nationalist forces in the background of neoliberal crisis testifies that this ‘object’ is here to stay. More generally, little research has been done to assess the relation between the reconfiguration of state apparatuses and processes of economic restructuring; at the same time, the evolution of law and law-making is not systematically explored in relation, for instance, to policy making and political economy. This framework given, the first aim of the paper is not to develop a theory of neoliberal state as such; rather, it aims to conceptualise the reconfiguration of the state in the past four decades of neoliberal globalization. The second aim of the paper is to assess such a process in the Italian case. The question is, how the state has changed from late 1970s to present? The second aim is to provide for a periodization of this "great transformation" in particular drawing conceptually a first phase (late 1970s-late 1980s), a second phase of mature neoliberalization (1990s to 2008); a third phase of late neoliberalization (2008 to present).

 

Panel 2.5 Neoliberalismi: una questione politologica (II)


Nel 2005 gli economisti Alfredo Saad-Filho e Deborah Johnston introducevano un volume intitolato Neoliberalism. A Critical reader scrivendo: «viviamo nell'epoca del neoliberismo». A un concetto che indica una dottrina politico-economica veniva così attribuito il ruolo di definire un'intera fase storica. Nello stesso anno veniva pubblicato anche A Brief History of Neoliberalism di David Harvey, che proponeva una ricostruzione storica di questo ciclo politico-economico, individuandone l'inizio nel triennio 1978-80. Queste due opere si inserivano in un dibattito, cominciato a partire dai primi anni del nuovo secolo, nel quale l'uso del concetto di neoliberalismo nelle scienze politiche e sociali è diventato sempre più frequente per indicare la molteplicità di trasformazioni politiche, sociali ed economiche in atto nel mondo contemporaneo. Come ha evidenziato Mathieu Hilgers in tale dibattito sono riscontrabili sono due differenti approcci: uno che affronta il neoliberalismo da un punto di vista teorico, come composita dottrina politico-economica, ed uno che invece lo affronta da un punto di vista pratico, come insieme di esperienze storiche riconducibili a tale dottrina. Il panel si propone quindi di ospitare contributi di studiosi che si occupano di tali questioni, nell’intento di far interagire l’approccio teorico con quello pratico. In particolar modo si sollecita la partecipazione di contributi che abbiano per oggetto:
- Neoliberalismo teorico; singoli aspetti trasversali o ricostruzioni complessive delle tre diverse scuole dell’ordoliberalismo tedesco, del neoliberalismo austro-americano, e della Scuola di Chicago, oltre che delle più recenti formulazioni del neoliberalismo manageriale; affinità e specificità dei neoliberalismi teorici e continuità e discontinuità tra essi ed il liberalismo classico.
- Neoliberalismo pratico; primi esperimenti (Repubblica Federale Tedesca e Cile), governi neo-conservatori degli anni Ottanta, neoliberalismo progressista, ristrutturazione delle economie nazionali ispirati dalla dottrina del Washington Consensus, processo di integrazione europea, governo della crisi del 2008, specificità del caso italiano.
2.5b Neoliberalismi: una questione politologica

Chairs: Alfredo Ferrara

Discussants: Giuseppe Cascione

Neoliberalism in the Social Sciences and in Economics. The Analysis of Human Behavior between Vienna and Chicago.
Jacopo Marchetti
AbstractThe advocacy of the free market has been supported in recent years by a fascination with the themes linked to “neoliberal culture”, which emerged for the first time during the 1980’s and the 1990’s in the Western world. The term “neoliberalism”, as witnessed by the intense proliferation of literature, had notable good fortune in those years both in academic debates and in the popular media. Nevertheless, for many years we superficially talked about “neoliberalism”, displacing the idea that it could include everything that has to do with the upsurge in global “financial capitalism” and with the success of complex political and economic strategies based on reforms that represented the most obvious symbol of the break with traditional social democracy and the Welfare State. This promiscuity was soon reflected in the academic debates, where neoliberalism became a Weltanschauung for the interpretation of different phenomena which involve men and their methods of government. From a different perspective, other people tried to unpick the different meanings of neoliberalism. In recent debates, neoliberalism has therefore been studied on the basis of changes in the implementation of its policies. It has been stressed that it is impossible to trace back “neoliberalism” to a monolithic character. In fact, it is possibile to highlight the existence of different phases within it, which concern different historical moments: the “Colloque Lippmann” in 1938 and the subsequent rise of Ordoliberalismus in Germany, the founding of the Mont Pélerin Society by Hayek in 1947 and the advent of American hegemony within it after the “Hundold affaire” (1962) which encouraged the rise of a second generation of Chicago School thinkers. Indeed, these distinctions coincided with different political and economic proposals which it is possible to understand by analyzing the social-scientific methodology which supports them. In my proposal, I intend to show how behind the different positions endorsed by the free-market advocators there were above all substantial differences in their methodological standpoints. This gap was intensified during the 1960’s with the fracture between the exponents of the Austrian and Chicago Schools. While the position of the stars of the Vienna School, Ludwig von Mises and Friedrich A. von Hayek, had its core in the connection between a theory of knowledge, a theory of action and a theory of social institutions with a whole system based on a coherent social-scientific philosophy, on the other hand, the central focus of the Chicago School, and especially of Milton Friedman and Gary Becker’s thought, was the generalized analysis of economic behaviors and trust in economics as a “positive” science, which became the central core of the explanation of human behavior. I want to stress that these viewpoints are grounded on 1) a different reception of marginal utility theory, 2) a different purpose of economic methodology, and, finally, 3) that they are based upon different extended meanings of analysis and of scientific instruments. These aspects become more evident when comparing the Misesian idea of "Human Action" with Becker’s explanation of human behavior, as I want to argue in my proposal's conclusions.

“Liberalismo autoritario”? L’ordoliberalismo tra modernità e tradizione
Olimpia Malatesta
AbstractNato all’inizio degli anni Trenta l’ordoliberalismo tedesco rappresenta una delle prima correnti del neoliberalismo a livello globale. Il suo rapporto con il liberalismo si caratterizza immediatamente come ambiguo: se da una parte mira a creare una “costituzione economica” (Wirtschaftsverfassung) capace di difendere l’ordine del libero mercato capitalistico dalle politiche interventiste, dall’altra esprime una critica, più o meno velata, ai presupposti politici e sociali del liberalismo. Se infatti il liberalismo viene esaltato in quanto sistema economico che ha liberato l’energia produttiva degli individui dai vincoli di natura feudale, dall’altra la democratizzazione politica e la de-gerarchizzazione sociale indotte dal liberalismo risultano responsabili di aver generato un mondo attraversato dal conflitto, in cui non vige più alcun “ordine”. Il presente paper intende allora definire in cosa consista il rinnovato tentativo d’ordine (Ordnungsversuch) avanzato dall’ordoliberalismo. Attraverso l’analisi della produzione teorica ordoliberale degli anni Trenta e Quaranta dei suoi più importanti esponenti (Eucken, Böhm, Müller-Armack, Röpke e Rüstow) si cercherà di analizzare il rapporto tra l’ordoliberalismo e il liberalismo con particolare attenzione alla questione economica, politica e sociale. Verranno analizzati il concetto di “costituzione economica”, la critica al parlamentarismo weimariano, la critica all’”astrattezza” dei principi politico-sociali del liberalismo classico. Sullo sfondo della presente analisi non potrà mancare il riferimento al contesto storico dal quale emerge l’ordoliberalismo: la crisi economica, politica e sociale della Repubblica di Weimar. Quest’ultima verrà letta dagli ordoliberali non soltanto come una crisi circoscritta agli anni Venti/Trenta, ma come l’ultimo effetto di una trasformazione ben più radicale che affonda le sue radici nell’affermazione della modernità.

Deirdre McCloskey. Una figura "eretica" della Scuola di Chicago.
Alessandra Maglie
AbstractLo scopo di questo studio sarà quello di esaminare il rapporto tra neoliberalismo e liberalismo classico nel modo in cui emerge dall’opera di Deirdre McCloskey, storica dell’economia formatasi nell’ambito della scuola di Chicago, che oggi si configura come figura divergente e originale nel suo profilo intellettuale. Docente dal 2000 al 2015 di economia, storia, letteratura inglese e comunicazione presso l’Università dell’Illinois, Chicago, in lei convivono l’esperienza transgender, un’opzione filosofico-politica di segno liberale classico e una appartenenza religiosa nella forma confessionale della Episcopalian Church. McCloskey è autrice di una ponderosa trilogia, costituita da tre volumi intitolati rispettivamente The Bourgeois Virtues (2007), Bourgeois Dignity (2010) e Bourgeois Equality (2016), in cui imbastisce un’appassionata difesa dell’etica borghese, riabilitando le virtù che hanno prodotto, in Europa e nel mondo, l’inaudito e generalizzato arricchimento che seguì la Rivoluzione Industriale. L’autrice – e in questa tesi consiste il nucleo teorico della trilogia – rinviene le cause di tale fenomeno nella “rivoluzione delle idee” generata dalla diffusione del liberalismo (classico), che ha favorito lo sviluppo dell’iniziativa individuale e di conseguenza ha creato le condizioni per lo sviluppo economico occidentale. La trilogia è tuttavia il culmine di un articolato percorso intellettuale: questo studio si propone dunque di esaminare le ragioni – e le contraddizioni – della transizione di McCloskey dal neoliberalismo della Scuola di Chicago, che aveva caratterizzato i suoi anni di formazione, al libertarismo della Scuola austriaca, che corrisponde al suo momento di distacco più critico nei confronti del neoliberalismo, fino a una versione del liberalismo classico presa in prestito dall’Adam Smith della Teoria dei sentimenti morali. L’aspetto più interessante di tale transizione, che qui verrà messo in particolare risalto, è il recupero di una dimensione etica, fondata su una teoria morale che alla “competizione” delle etiche deontologiche sostituisce la “cooperazione” a cui si appellano le teoriche femministe dell’etica della cura: è evidente, infatti, come il carattere di originalità delle tesi esposte nella trilogia borghese sia in larga parte costituito dalla lettura “di genere” che McCloskey dà del liberalismo classico. L’obiettivo sarà quello di fornire una ricostruzione della prospettiva teorica fornita dalla Scuola di Chicago attraverso l’opera di una personalità “eretica”, che da tale tradizione di pensiero ha finito per distaccarsi. Bibliografia. • Deirdre McCloskey, Adam Smith, the Last of the Former Virtue Ethicists, in History of Political Economy, 40 (1, 2008), pp. 43-71. • Deirdre McCloskey, The Bourgeois Virtues: Ethics for an Age of Commerce, University of Chicago Press, 2006. • Deirdre McCloskey, Bourgeois Dignity: Why Economics Can't Explain the Modern World, 2010, University of Chicago Press. • Deirdre McCloskey, Max U versus Humanomics: A Critique of Neo-Institutionalism, in Journal of Institutional Economics, Spring 12 (2015), pp. 1-27. • Deirdre McCloskey, Bourgeois Equality: How Ideas, Not Capital or Institutions, Enriched the World, University of Chicago Press, 2016. • AA.VV., Cura dell’altro. Interdipendenza e disuguaglianza nelle democrazie contemporanee, a c. di Maria Pia Paternò, Editoriale scientifica, Napoli 2017. • Becchio, Giandomenica e Leghissa, Giovanni, The Origins of Neoliberalism. Insights from economics and philosophy, Routledge, London & New York 2017. • Friedman, Milton, Capitalismo e libertà, prefazione di A. Martino, tr. it. di D. Perazzoni, IBL, Milano 2010. • Harvey, David, Breve storia del neoliberismo, tr. it. di P. Meneghelli, Il Saggiatore, Milano 2007 (I ed. 2005). • Panebianco, Angelo, Il potere, lo stato, la libertà. La gracile costituzione della società libera, Il Mulino, Milano 2004. • Schumpeter, Joseph A., Capitalismo, Socialismo e Democrazia, introd. di F. Forte, Rizzoli ETAS, Segrate 2001 (I ed. 1942). • Smith, Adam, Teoria dei sentimenti morali, a cura di A. Zanini, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991 (I ed. 1759).

Il ruolo dell’intervento statale nel neoliberalismo di Hayek
Paolo Scanga
AbstractL’obiettivo del mio paper è sviluppare un’interpretazione del neoliberalismo di F. A. Hayek. In particolar modo il mio interesse è mostrare gli elementi di discontinuità rispetto al liberalismo classico, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con lo Stato. Per quanto Hayek abbia inteso il suo lavoro teorico in continuità con il pensiero liberale classico - le cui radici sono interne alla tradizione liberale che vede la luce nella seconda metà del Seicento e nel secolo successivo, come insieme dei principi politici dei whigs inglesi - d’altra parte, molteplici sono i punti di novità, che ci permettono di parlare di una svolta neoliberale. Volendo condurre una ricerca che permetta di mettere in mostra come Hayek sviluppi il concetto di neoliberalismo, fondamentale sarà mettere in risalto le motivazioni e gli obiettivi di questa operazione teorica. Tra la fine degli anni Trenta e metà degli anni Sessanta, abbandonati gli studi prettamente economici, inizia a lavorare sulla storia del pensiero politico liberale. In gran parte della suo bibliografia, Hayek insiste sulla continuità del suo pensiero con autori come A. Smith, B. Mendeville o D. Hume. Le innovazioni teoriche, però, sono consistenti: fondamentale è l’insistenza sull’individualismo metodologico, base fondante del marginalismo su cui avevano già lavorato Menger e Mises. In continuità con questa svolta teorica, il pensiero hayekiano si concentra in un corpo a corpo con il costruttivismo, presentando un particolare interesse nel suo rapporto con il concetto di Stato. Difatti, lo scarto rispetto alla tradizione liberale classica che Hayek introduce è la costruzione di una terza via tra il laissez-faire e il “costruttivismo”: Hayek non punta all’estinzione della presenza pubblica, anzi considera fondamentale alcune forme di intervento statuale quando funzionali al meccanismo del mercato, da lui definito catallassi. L’ordine catallattico, secondo Hayek, va garantito anche attraverso forme di interventismo statuale forte ed autoritario. Il paper verrà sviluppato attraversando alcuni testi nodali nei quali Hayek mostra la sua radicale opposizione verso il “costruttivismo”. Mi concentrerò soprattutto sui testi pubblicati tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta, in cui metterò in mostra la distinzione tra forme di intervento statuale legittimo e illegittimo. Attraverso questa analisi, analizzerò le innovazioni e l’importanza del suo pensiero per comprendere il neoliberalismo.

 

Round table

Panel 2.6 La politica come professione. Cento anni dopo
  round table joint with Panel 4.7 - La politica come professione. Cento anni dopo


TAVOLA ROTONDA CONGIUNTA COORDINATA DALLE SEZIONI SISTEMA POLITICO ITALIANO E TEORIA POLITICA

Qual è il destino della politica professionale? La domanda ha riecheggiato continuamente nei decenni della crisi dei partiti di massa e, da ultimo, è diventata ancora più pressante a causa dell’avvento di fenomeni variamente definiti che hanno in comune il declino della “intermediazione”; il richiamo ad una politica di servizio formalmente aperta a tutti, ma al tempo stesso sempre più dominata dai leader e corredata da sofisticate strategie di comunicazione. Lo strepitoso successo di formazioni politiche che della negazione e del contrasto al professionismo politico hanno fatto una bandiera è forse l’evidenza più netta dei problemi di questo modello solitamente ricondotto all’insegnamento di Weber.
Nel corso del 2019, a cento anni dalla famosa lezione weberiana, questa stessa domanda è stata riformulata in chiave di celebrazione e di bilancio storico, stimolando gli interventi pubblici di molti osservatori e intellettuali. Inserendosi in questo solco, questa tavola rotonda offerta congiuntamente alle sezioni di Teoria Politica e Sistema Politico Italiano si propone di ragionare attorno al significato attuale della professione politica. La tavola rotonda ospiterà contributi di taglio diverso: dalla rilettura critica e attualizzata di Weber e della sua lezione, all’analisi dello sviluppo e delle caratteristiche della classe politica italiana in prospettiva storica e/o comparata, all’analisi dei diversi percorsi di professionalizzazione (e di de-professionalizzazione) politica in Italia, comprese le forme di neo-notabilato locale.
Tavola rotonda inter-sezione (sezione 2 e 4) - La politica come professione. Cento anni dopo

Luca Verzichelli – Moderatore


Intervengono

Jean Louis Briquet - Azione politica e radicamento territoriale. Un’analisi del mestiere politico

Vittorio Mete – Fare politica in tempi di antipolitica

Filippo Tronconi – Il professionismo politico ai tempi del populismo


Chairs: Vittorio Mete, Luca Verzichelli

 

Panel 2.6 Spazi, frontiere e confini in discussione: gli effetti della globalizzazione sulla statualità. (I)


Le alterazioni della globalizzazione colpiscono, scuotono e ridefiniscono lo Stato a partire dai suoi confini e impongono un ripensamento critico che attraversi trasversalmente i margini dei suoi elementi costitutivi. La territorialità appare turbata dalle ricollocazioni e riorganizzazioni della politica a scale differenti da quella statuale, che fanno vacillare la fissità del territorio e che ridisegnano la cartografia globale su nuovi spazi. Il rapporto con la comunità è alterato dai movimenti e sommovimenti che la attraversano, che disarticolano la congiunzione dello Stato con la comunità nazionale e la rinnovano in senso sempre più plurale e diversificato. La sovranità risulta decentrata e frammentata dall’intreccio tra neoliberismo economico, integrazione politica, regionalizzazione e nuove forme di governance che si esprimo su un piano sempre più marcatamente “glocale”.
Se la permanenza dello Stato nell'epoca della globalizzazione avanzata è ormai un dato acquisito, occorre riconsiderare criticamente i margini delle categorie cognitive della statualità, in un processo di ristrutturazione e ricollocamento che sia aperto alla sua dimensione processuale e che spezzi e complessivizzi l’assolutizzazione dei confini di territorio, popolazione e sovranità. Piuttosto che determinarne la scomparsa, l’impatto della globalizzazione sullo Stato rinnova e allarga gli spazi di elaborazione critica e mette la scienza politica in condizione di valicare e contestare i suoi stessi limiti disciplinari, aprendosi a contaminazioni e integrazioni provenienti da contesti epistemologici e metodologici diversi. Tale opera di rinnovamento implica un superamento delle alternative tra categorie chiuse e autoescludentesi e l’apertura verso un processo cognitivo più fluido, che proceda per salti, ristrutturazioni e riorganizzazioni e che sia in grado rendere conto delle evoluzioni e delle dinamiche mobili, nello spazio e nel tempo, che caratterizzano i confini della globalizzazione.
Sulla scia di tali riflessioni e delle implicazioni che da esse derivano, si sollecitano proposte di intervento volte a discutere in una prospettiva critica il portato destrutturante di tali trasformazioni sia nell’ambito dell’analisi teorica che con riferimento alle possibili ricadute sul piano della ricerca empirica.
2.6a Spazi, frontiere e confini in discussione: gli effetti della globalizzazione sulla statualità.

Chairs: Nadine Innocenzi

Discussants: Angela Sagnella

CONTENERE ED ESCLUDERE. NOTE INTORNO ALLA TEICOPOLITICA
Antonello Scialdone
AbstractSecondo molte fonti istituzionali e diversi studiosi, il XXI secolo dovrebbe essere considerato come ‘the century of the migrant’ (NAIL 2015) poichè si stima che il numero elevato delle persone destinate a lasciare i paesi di origine, già oggi elevato, possa crescere in misura consistente nei prossimi decenni: è la prospettiva cosiddetta del Grande Esodo, che secondo gli studi delle Nazioni Unite potrebbe essere in primis causata dal permanere di vistose asimmetrie demografiche ed economiche. Ma nel discorso pubblico dominante costi e perdite sopportati dai migranti sono ormai sopravanzati dall’enfatizzazione dei rischi a carico dei contesti di destinazione e delle prerogative dei nativi, insieme con l’evocazione dei pericoli del terrorismo: di qui il prepotente riemergere a livello globale di argomenti sulla necessità di muri a difesa delle frontiere nazionali. Anche parlando di Europa, che fino a 100 anni fa quasi non conosceva controlli alle frontiere (come insegna la storiografia e come pare utile ricordare per sottolineare quanto questa scelta di arroccamento e di apparati restrittivi sia condizionata dalla congiuntura politica) va ormai rilevata una situazione contraddittoria ed elusiva, in cui si cumulano pratiche di esternalizzazione delle frontiere e retoriche nazionalistiche, transnational policing e differenziazione dei regimi di presidio dei confini. Per caratterizzare la spinta alla costruzione di muri ai confini statali per fini securitari, due studiosi francesi hanno coniato il termine teichopolitics -dal greco antico teichos, i.e. mura della città (BALLIF-ROSIERE 2009)- da cui può derivarsi il neologismo ‘teichometry’, che concerne il tentativo di misurare le pratiche di chiusura verso l’esterno e di analizzarne gli effetti a diversi livelli spaziali. Il tema in esame è stato negli ultimi anni fatto oggetto di analisi e riflessioni molto interessanti (BEAULIEU BROSSARD-DAVID 2013; BROWN 2013; CALLAHAN 2018; COTE’ BOUCHER et al. 2014; GUILLOT 2018; MADSEN-RUDERMAN 2016; MINCA-RIJKE 2017; QUETEL 2013; SIMMONS 2019; VALLET 2016; VRBAN 2018; VERNON-ZIMMERMANN K. 2019; ZAPATA BARRERO 2013), da declinarsi sopratutto in un'ottica interdisciplinare. Il paper ambisce a comparare approcci teorici ed evidenze empiriche centrate sulla questione delle funzioni dei muri e del re-bordering, mettendo in luce spunti del dibattito scientifico desumibile da rilevanti esiti della letteratura internazionale di diversi campi disciplinari (geografia politica, scienze sociali, economia delle migrazioni, regional studies, relazioni internazionali).

Crisi della sovranità statale e globalizzazione.
Giovanni Tarantino
AbstractLa celebre Prolusione pisana di Santi Romano del 1909, Lo Stato moderno e la sua crisi, conteneva, tra l’altro, l’affermazione: «Il diritto e la costituzione di un popolo rappresentano sempre il genuino prodotto della sua vita e della sua intima natura». Se tale affermazione non sollevava allora dubbi teoretici, oggi, invece, stante l’avvento di fenomeni nuovi come la globalizzazione, e come la rapidità delle comunicazioni permessa dalle ICT, i dubbi ci sono. Ciò perché questi fenomeni nuovi, infatti, hanno reso labili e quasi non più necessari gli stessi confini territoriali degli Stati, con la conseguenza di sconvolgere l’equilibrio dei rapporti fra i soggetti politici tradizionalmente intesi e di mettere in dubbio la convinzione secondo la quale un popolo ha il diritto di darsi le proprie leggi. Ne deriva infatti che, se l’elemento territoriale dello Stato perde il suo carattere costitutivo, anche la concezione moderna della sovranità, che secoli di cultura politica e giuridica ci hanno consegnato, entra, in tal modo in crisi. Entra in crisi perché, come è noto, tradizionalmente il suo esercizio si sostanzia primariamente nella produzione legislativa di un popolo, la cui efficacia si esplica poi all’interno del territorio dello Stato. Il concetto di sovranità moderna è stato formulato da Bodin, ma, come ci ricorda F. Calasso, è presente già più indietro nel tempo. Lo ritroviamo con Marino da Caramanico nel XIII secolo, e, ancora prima, la sovranità la troviamo già nella cultura greca, almeno come attributo del potere. Tornando allo sconvolgimento dell’equilibrio dei rapporti fra i soggetti politici tradizionalmente intesi a cui oggi si assiste, da parte di dottrina autorevole, si è ipotizzata la Metamorfosi della sovranità, ma, personalmente ritengo che non ci si trovi davanti ad una generica metamorfosi della sovranità, quanto, invece, alla metamorfosi del concetto di sovranità. Solo il concetto, infatti, costituendo una rappresentazione contingente e storica di un’idea, può andare incontro ad una crisi, l’idea, invece, permane tale. Quel che può cambiare lungo un percorso storico, che vede un graduale appannarsi di una determinata concezione di un soggetto politico e apparire un soggetto politico nuovo, non incide sull’essenza della sovranità, che non si modifica, ma sul suo concretizzarsi storicamente in modi differenti. Nella definizione della sovranità moderna la sua essenza coincide con l’attributo del potere supremo, inscindibilmente legato al potere politico, contestualmente al quale nasce e del quale costituisce l’elemento essenziale. I suoi caratteri costituenti sono l’originarietà, l’assolutezza e la perpetuità. Nel contesto storico-politico contemporaneo in cui, per i nuovi fenomeni globalizzanti a cui prima ho fatto cenno, i confini territoriali perdono quasi la loro ragione d’essere, i soggetti politici tendono ad essere considerati non più solo gli Stati nazionali, ma anche tutte quelle istituzioni metanazionali (il cui sorgere è spesso legato proprio a quei ricordati fenomeni globalizzanti) unitamente ai popoli, agli enti, agli individui, ed ad altri soggetti sociali, i quali, considerandosi nuovi titolari dell’esercizio della sovranità, finiscono per chiedere la revoca della stessa agli organi dello Stato. E’ opportuno precisare qui per completezza che l’attività di molti di questi nuovi soggetti politici, che chiedono di esercitare la sovranità non solo nel contesto statale, ma soprattutto nel contesto mondiale, sorge attorno ai principi posti a tutela dei diritti fondamentali della persona umana e della sua autodeterminazione. Si può facilmente comprendere, quindi, che, nel momento in cui si accetta un legame stretto tra libertà, sovranità, autodeterminazione, auctoritas e potestas, si ha la conseguenza del privilegio più della titolarità della libertà e della sovranità, che del loro esercizio. Più che la potestas, quindi, l’auctoritas. Se si accetta tale assunto allora si fa breve il passo che conduce a qualificare i popoli, gli individui e le ricordate istituzioni sovranazionali (come pure gli altri soggetti sociali e morali) come nuovi soggetti sovrani. Si profila così una nuova concezione della sovranità, che non si limita ad interessare solo la filosofia, la scienza politica e il diritto, come è stato prima, ma anche altre discipline che riguardano l’attività pratica dell’uomo, come l’economia. A tal proposito si può giungere ad affermare che il legislatore non sia più libero nell’emanare le leggi che ritiene necessarie in un dato momento storico, ma che sia, al contrario, almeno nei campi applicativi contigui all’economia, obbligato a seguire le esigenze di quest’ultima, specialmente in materia di scambi commerciali, che ormai avvengono tra territori di Stati diversi in maniera spesso istantanea e per i quali una legislazione di emanazione rigidamente e strettamente limitata a quella Statale non avrebbe efficacia di effetti. Si pensi al riguardo, a titolo di esempio, ad alcuni fenomeni che maggiormente hanno determinato la crisi della concezione moderna della sovranità statale. Si pensi ad organizzazioni di governance globale come il G 8 o il G 20 o agli enti e alle istituzioni che hanno la funzione di coordinamento economico metanazionale relativo alla sovranità monetaria, come la BCE o l’FMI, e si pensi, infine, più ampiamente, a tutti quei processi di integrazione macroregionale che trovano massimamente la loro espressione nell’UE. Proprio in ambito UE, a titolo di esempio (ma se ne potrebbero fare anche molti altri) si ricorda qui l’adozione del Fiscal compact. Tale accordo economico-normativo, come è noto, ha imposto agli Stati membri dell’UE il pareggio di bilancio. Per quanto riguarda l’Italia, in questo caso la limitazione della libertà del legislatore nazionale nell’emanare le leggi è stata particolarmente marcata: per recepire l’obbligo del pareggio di bilancio si è dovuti giungere infatti sino alla modifica della Costituzione. Da quanto detto prima si conferma, quindi il ruolo fondamentale della globalizzazione soprattutto economica nella crisi della sovranità statale. Essa di fatto ha sostituito la politica con l’economia come luogo di coordinamento tra gli interessi degli Stati, dei soggetti meta e infra nazionali e dei popoli. E tornando all’affermazione pisana del Romano a cui ci siamo riferiti all’inizio, possiamo dire che tale fenomeno ha posto in discussione la convinzione per cui vi è un dovere di riconoscere ai cittadini che vivono su un determinato territorio il potere sovrano di darsi un ordinamento giuridico. La metamorfosi della sovranità oggi, quindi, risiede nell’aver limitato il carattere della territorialità (quando lo ha cancellato) per privilegiare il carattere della materia che si pone a contenuto delle leggi. Si è, cioè davanti ad un contrasto del tipo: sovranità per territorio versus sovranità per materia. Allo stesso tempo e come conseguenza si ha anche la metamorfosi del soggetto politico, che non può più essere solo lo Stato, ma che spesso, coincide con tutti quei soggetti, che prima si sono ricordati, che proiettano la loro attività sul territorio di una pluralità di Stati. Il contributo cercherà quindi sia di proporre una nuova lettura del concetto di sovranità moderna, con l’obiettivo di comprendere quanta sovranità per territorio mantengano gli Stati nazionali, e quanto spazio, invece, abbia conquistato la sovranità per materia, e sia di comprendere l’effettivo ruolo dei soggetti titolari di questa forma nuova di sovranità.

I confini della statualità siriana: la migrazione siriana in Marocco e il rapporto tra spazio e potere.
Fanny Faccenda
Abstract
Il mio contributo si pone come obiettivo di esplorare i confini dello Stato siriano e gli spazi in cui si esercita il potere a partire dalla migrazione dei suoi cittadini in Marocco. Se lo studio dello Stato siriano viene presentato principalmente all’interno dei confini nazionali, attraverso le dinamiche della guerra civile in corso o mediante la categoria di “Stato fallito”, è la migrazione di milioni di rifugiati che permette di ripensarne i confini. A tal proposito, la letteratura sulla diaspora presenta un’immagine dello Stato reificata, laddove lo studio sullo Stato tende ad essere dato per scontato e ridotto all’esperienza di alcune categorie di attori: ciò che viene considerato all’interno e all’esterno dei confini dello Stato non é più problematizzato. L’esperienza etnografica svolta in Marocco nel 2015 volta a studiare la migrazione dei rifugiati siriani, ha permesso di ampliare la riflessione e di analizzare i diversi flussi migratori avvenuti a partire dagli anni ‘60 nel paese, cosi come le interazioni tra cittadini siriani all’interno dell’arena di socializzazione marocchina. In particolare, si è osservato come in un contesto di mobilità forzata di un’intera popolazione proveniente dalla Siria, i cleavages politici (Lipset et Rokkan 1967, Bartolini 2005) non possono essere ripensati solo in relazione all'autorità, in una posizione pro o contro il regime siriano, ma piuttosto in una continua rinegoziazione dell’appartenenza nazionale. I cleavages riscontrati hanno persino impedito la creazione di spazi di partecipazione (Weber 1978) nel contesto marocchino, generando un processo di misconoscimento e di paura tra le prime vagues di diaspora e il nuovo flusso di rifugiati siriani. A partire da tali riflessioni, il contributo intende quindi riflettere sui confini della statualità siriana in una duplice dimensione: il rapporto tra territorio e sovranità superando le frontiere generalmente prese in considerazione nello studio del regime siriano, e il rapporto tra spazio e potere (Brambilla 2005), laddove le frontiere nella loro dimensione socio-politica (Paasi 1998) si mostrano attraverso l’interazione dei diversi flussi di migrazione siriana e la loro integrazione in Marocco. L’obiettivo é di interrogare la categoria di frontiera per ripensare lo Stato, domandandosi in che modo si trasformano i luoghi di governo e in che modo gli attori siriani possono ridefinire la legittimità e la spazialità del potere, incorporando e riproducendo i confini dell’autorità.

 

Panel 2.6 Spazi, frontiere e confini in discussione: gli effetti della globalizzazione sulla statualità. (II)


Le alterazioni della globalizzazione colpiscono, scuotono e ridefiniscono lo Stato a partire dai suoi confini e impongono un ripensamento critico che attraversi trasversalmente i margini dei suoi elementi costitutivi. La territorialità appare turbata dalle ricollocazioni e riorganizzazioni della politica a scale differenti da quella statuale, che fanno vacillare la fissità del territorio e che ridisegnano la cartografia globale su nuovi spazi. Il rapporto con la comunità è alterato dai movimenti e sommovimenti che la attraversano, che disarticolano la congiunzione dello Stato con la comunità nazionale e la rinnovano in senso sempre più plurale e diversificato. La sovranità risulta decentrata e frammentata dall’intreccio tra neoliberismo economico, integrazione politica, regionalizzazione e nuove forme di governance che si esprimo su un piano sempre più marcatamente “glocale”.
Se la permanenza dello Stato nell'epoca della globalizzazione avanzata è ormai un dato acquisito, occorre riconsiderare criticamente i margini delle categorie cognitive della statualità, in un processo di ristrutturazione e ricollocamento che sia aperto alla sua dimensione processuale e che spezzi e complessivizzi l’assolutizzazione dei confini di territorio, popolazione e sovranità. Piuttosto che determinarne la scomparsa, l’impatto della globalizzazione sullo Stato rinnova e allarga gli spazi di elaborazione critica e mette la scienza politica in condizione di valicare e contestare i suoi stessi limiti disciplinari, aprendosi a contaminazioni e integrazioni provenienti da contesti epistemologici e metodologici diversi. Tale opera di rinnovamento implica un superamento delle alternative tra categorie chiuse e autoescludentesi e l’apertura verso un processo cognitivo più fluido, che proceda per salti, ristrutturazioni e riorganizzazioni e che sia in grado rendere conto delle evoluzioni e delle dinamiche mobili, nello spazio e nel tempo, che caratterizzano i confini della globalizzazione.
Sulla scia di tali riflessioni e delle implicazioni che da esse derivano, si sollecitano proposte di intervento volte a discutere in una prospettiva critica il portato destrutturante di tali trasformazioni sia nell’ambito dell’analisi teorica che con riferimento alle possibili ricadute sul piano della ricerca empirica.
2.6b Spazi, frontiere e confini in discussione: gli effetti della globalizzazione sulla statualità.

Chairs: Nadine Innocenzi

Discussants: Angela Sagnella

I luoghi della migrazione: regimi di mobilità e processi di spazializzazione
Pasquale Menditto
AbstractIl 18 aprile 2015 un peschereccio proveniente da Tripoli affondava a circa 70 miglia dalla costa libica. A bordo si trovavano circa 950 migranti, di cui oltre 700 morirono intrappolati nella stiva della nave che aveva cominciato ad affondare dopo essersi ribaltata durante le operazioni di soccorso. Ancora, il 27 agosto 2015 un camion frigorifero viene trovato abbandonato lungo un’autostrada austriaca con all’interno i cadaveri di oltre 50 migranti morti asfissiati. Stive, superfici sovraffollate di piccole imbarcazioni, celle frigorifero di camion, così come gli interni di edifici abbandonati in aree urbane periferiche, il piccolo vano di una tenda posta sotto ponti o viadotti, oppure posizionata insieme a decine di altre a formare tendopoli disseminate in prossimità di confini nazionali: sono i luoghi prodotti dall’azione di pratiche di governo e forme di sapere la cui doppia articolazione genera specifici regimi di mobilità (Shiller, Salazar). Attraverso un confronto tra le teorie su governamentalità, processi di territorializzazione e alcuni eventi caratterizzanti i processi migratori contemporanei, l’intervento si propone di analizzare come la proliferazione di spazi interstiziali corrisponda alla necessità da parte di entità statali e internazionali di addomesticare fenomeni globali che mettono in discussione i regimi di mobilità vigenti (Foucault, Deleuze, Agier).

L’appartenenza associativa transnazionale e i confini fluidi di un mondo globalizzato. Una riflessione sull’emergere di una società civile organizzata in dialogo con le istituzioni pubbliche
Sara Nanetti
AbstractIntroduzione Il termine globalizzazione ha caratterizzato la riflessione sulla contemporaneità degli ultimi trent’anni secondo due direttive: in senso interdisciplinare, a partire dalle scienze economiche fino ad approdare alle scienze sociali e politiche; in senso più esteso, nel comune sentire dell’opinione pubblica, per l’affinità tra il significato dell’espressione e l’esperienza concreta degli individui. La globalizzazione rappresenta uno di quei rari casi di corrispondenza tra scienza e doxa, tanto da apparire estremamente efficace nel definire l’epoca contemporanea nel suo portato evolutivo in costante trasformazione. La globalizzazione comprende, nella pluralità delle definizioni che hanno proposto una sua determinazione (Giddens 1994; Habermas 1996; Beck 1999; Donati 2005), due dimensioni fondamentali: la dimensione temporale e la dimensione spaziale, nei termini di una «space-time compression» (Harvey 1997). Da un lato, la globalizzazione fa convergere processi estremamente distanti in un singolo luogo, consentendo ad una molteplicità di lingue e culture di condividere gli stessi spazi; dall’altro, riduce i poteri degli Stati nazionali (Strange 1996), favorendo l’emergere di nuovi pericoli e di nuove sfide che implicano l’attivazione di strumenti e procedure indifferenti alle caratteristiche spaziali e temporali (Giddens 1992). Tale fenomeno costringe a ripensare le relazioni sociali, non più legate ad un determinato luogo o circoscritte entro uno specifico confine territoriale. La sovraterritorialità, implicata nei processi globali, contribuisce alla liquefazione di una territorialità e di una statualità legate allo spazio. Tuttavia, l’accento posto sulla deterritorializzazione, non può esimersi dal rivolgere l’attenzione al suo correlato-opposto di promozione e potenziamento delle realtà particolari. L’altra medagli della globalizzazione risiede, infatti, in quei processi «glocali» di commistione tra omologazione e differenziazione (Robertson 1998). A fronte di tali mutamenti, si impone la domanda sull’identità delle categorie sociali emergenti nel contesto globale. È possibile individuare forme specifiche di sociazione in un contesto sempre più destatualizzato e decentrato? Da quali confini sono definite tali realtà? Le organizzazioni di terzo settore: un attore sovranazionale Le realtà associative di carattere familiare rivestono una particolare importanza per la comprensione di quelle nuove soggettività sociali che stanno emergendo all’interno di un tessuto sociale sempre più decentrato da un punto di vista non solo istituzionale ed economico ma anche epistemico e civile (Donati 1997, 2015). Le ricerche finora condotte lasciano aperto l’interrogativo sulle modalità inedite di declinazione dell’associazionismo familiare in un orizzonte sovranazionale. Gli ultimi decenni hanno incontrato un processo di mutamento e differenziazione che ha interessato diverse sfere del sociale. In particolare, la struttura familiare è stata investita da una crescente complessità e da processi di de-istituzionalizzazione (Di Nicola, Landuzzi 2004; Rossi, Bramanti 2012). Allo stesso tempo, le sfere della società civile, con l’intensificarsi di una governance multilivello e stratificata (glocale), hanno acquisito un peso crescente, tanto da configurare un nuovo modello di «cittadinanza societaria» (Donati 1993). La correlazione di questi due fattori impone una riflessione sulla rapidità e sulla qualità di tali mutamenti. Il presente contributo intende proporre i risultati più significativi di una ricerca esplorativa sul fenomeno associativo delle famiglie in Europa, commissionata dall’Istituto di Antropologia per la cultura della famiglia e della persona al Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia. La ricerca ha coinvolto 100 organizzazioni di carattere familiare, presenti in diversi Paesi europei, mediante la somministrazione di un questionario articolato in cinque blocchi tematici concernenti: le notizie generali sull’associazione, i dati relativi al compilatore, la genesi e la storia delle organizzazioni, la matrice di familiarità delle associazioni, l’orientamento valoriale della mission associativa e le risposte messe in campo dalle organizzazioni rispetto alle sfide più recenti che interessano la famiglia. La metodologia adottata nell’analisi dei dati si è articolata in una dimensione quantitativa (di analisi monovariate e multivariate) e in una dimensione qualitativa (di analisi del contenuto). I risultati ottenuti sono stati riformulati e riproposti adottando quale distinzione guida: la matrice di familiarità delle organizzazioni e la reticolarità associativa. La diversità che contraddistingue le molteplici tradizioni familiari e culturali dei singoli Paesi, si accompagna ad un’apertura delle frontiere, sollecitata da un processo di integrazione politico-sociale sempre più consolidato, incalzato non solo dalle interconnessioni istituzionali ed economiche ma altresì dal più esteso processo di globalizzazione. Sulla base di questa connessione antinomica, le realtà associative generano nuovi spazi di azione, dando vita a reti e federazioni. La maggior parte delle Federazioni (Confederazioni, Unioni o Network) ha avuto origine dall’iniziativa di un gruppo di associazioni o da un’associazione preesistente, seguendo un processo costitutivo che ha in sé i caratteri propri delle realtà glocali. Allo stesso tempo, il livello operativo prevalente in tali organizzazioni (di secondo o terzo livello) è quello transnazionale, caratterizzato dalla partecipazione a più coordinamenti. Questi dati rivelano la costante evoluzione delle realtà associative, in risposta alle sfide provenienti dal tessuto sociale e politico. Allo stesso tempo, la capacità operativa delle organizzazioni incide nel contesto all’interno del quale si produce, dando luogo ad un rapporto di relazioni reciproche in grado di rigenerare sia il contesto sociale, sia le stesse identità associative implicate. Si evidenzia, infatti, un’esplicita apertura e una costante collaborazione verso gli organismi sovranazionali a cui si accompagna, rispetto alla portata globale, una persistente presenza delle organizzazioni nei contesti di prossimità degli attori coinvolti. Attraverso un processo di rimodulazione della governance che mette in campo, allo stesso tempo, un profilo globale e un radicamento sociale, è possibile individuare un’inedita declinazione dell’«universalizzazione del particolare» e della «particolarizzazione dell’universale». Al centro di tale processo, la forma statuale viene definita dalle organizzazioni, in relazione agli interessi avanzati dalle famiglie, da un lato, attraverso la declinazione normativa di un auspicato sostegno consolidato e diffuso da parte delle istituzioni pubbliche verso i nuclei famigliari; dall’atro, da una più moderata regolazione della famiglia da parte dello Stato. Sulla base di tale confronto, l’intreccio tra istituzioni pubbliche e famiglia sostenuto dalle realtà associative, pur riconoscendo nelle prime una fonte necessaria di sostegno, risulta orientato in prima battuta all’agency familiare, ovvero alle capacità creative e di azione della struttura famigliare all’interno del contesto sociale. Lo stato di bisogno, di cui le famiglie che compongono le diverse organizzazioni sono portatrici, si traduce nella volontà di agire collettivamente per trovare una risposta a tale bisogno a più livelli. BIBLIOGRAFIA BECK U. (1999), Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma. DI NICOLA P. - LANDUZZI G. (2004), Le Associazioni familiari, in DONATI P. (a cura di), Il terzo settore in Italia: culture e pratiche, Franco Angeli, Milano, pp. 108-137. DONATI P. (1993), La cittadinanza societaria, Laterza, Roma-Bari. DONATI P. (1997), Family Associations in Europe: A General Outlook and Typology, «Associations», 1 (2), Duncker & Humblot, Berlin, pp. 235-255. DONATI P. (2015), Does Relationality Make Sense on a Global Level? Is There a Global Society?, in SISON A. J. G. (eds), Handbook of Virtue Ethics in Business and Management, Springer, Dordrecht. GIDDENS A. (1994), Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, il Mulino, Bologna. HABERMAS J. (1996), La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano. HARVEY D. (1997), La crisi della modernità. Alle origini dei mutamenti culturali(1989), Milano. ROBERTSON R. 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Sovranismo, europeismo e società multiculturale tra istanze nazionalistiche, tutela multilivello dei diritti fondamentali e tradizioni (culturali) comuni
Luca Buscema
AbstractLa storia della formazione e dello sviluppo delle istituzioni politiche ruota attorno al difficile equilibrio intercorrente tra autorità e libertà, tra esercizio della sovranità e possibilità di sottrazione dal potere coercitivo (arbitrario). “La loro correlazione ha dato vita ed animato un lungo e mai concluso processo di ricerca della migliore coesistenza, nel tentativo di costituire equilibri politici, giuridici e sociali sufficientemente stabili, anche se sempre relativi ed in continua evoluzione” (Martinelli, 2011). In seno ad un sistema di governo democratico, il fondamento della titolarità e dell’esercizio della sovranità va individuato, in sintesi, “nelle ragioni di legittimazione del…potere, delle finalità che deve perseguire e nell’utilizzo accorto degli strumenti per raggiungerle” nell’ottica della ricerca del bene comune, “difficile da definire, ma comunque identificabile come un valore collettivo” (Martinelli, 2011). Invero, a partire dalla nascita dello Stato liberale incomincia a radicarsi una concezione della sovranità affidata alla Nazione, entità collettiva o società naturale in cui si riconoscono tutti gli individui accumunati da un indissolubile legame di comunione di origini e tradizioni antropologiche, linguistiche e culturali. Esse, di per sé sole, però, si dimostrano insufficienti a garantire il processo di sintesi di una collettività indistinta in popolo se non sorrette, integrate e vivificate dall’elemento spirituale della “coscienza della nazionalità”, atteso che, in un siffatto ordine di idee, “la nazione finisce talora per risolversi interamente nella volontà di <>” (Crisafulli, Nocilla, 1977). Volontà, “esplicatasi in passato con una serie ininterrotta di manifestazioni” (Chabod, 1961), che si traduce nel ricorso ad istituti giuridici tesi a regimentare le modalità di esercizio della sovranità popolare. La nazione diviene, dunque, “una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto intangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme” (Renan, 1993). In tale direzione, matura il convincimento dell’esistenza del “diritto delle nazionalità a liberamente costituirsi ed a conservare la propria indipendenza (se la posseggono) o rivendicarla, se straniera violenza le tiene schiave ed oppresse” (Mancini, 1873). La connotazione rivoluzionaria del concetto di nazione come fonte della sovranità fa sì che si addivenga, in questa fase, alla sovrapposizione ideale con la nozione di popolo, dando vita all’accezione liberale di cittadinanza “intesa come appartenenza dell’individuo ad un popolo, vale a dire ad una specifica nazionalità, unica collettività politica possibile” (Carrozza, 1995). Indubbiamente, il fattore politico, in uno con la comune estrazione etnica e culturale di un popolo, contribuisce in misura determinante a rendere nazione una collettività indistinta di individui. Un potere politico unitario, radicato in seno ad un apparato organizzativo stabile, deputato all’esercizio della sovranità, promuove “il sentimento e la coscienza di una comunanza di destini” specie laddove sia possibile rinvenire una memoria storica comune, operando nella direzione della garanzia dell’immanenza delle istituzioni di governo in cui si riconosce un gruppo sociale avvinto da un condiviso idem sentire. Esso richiede, però, uniformità di valori ed ideali, sorretti da unità di spirito e di intenti radicati su di un substrato culturale omogeneo, patrimonio indissolubile di una pluralità di individui elevata a nazione. In questa direzione, non può prescindersi dall’identità linguistica, la sola che consente “quella possibilità di comunicazione che è il primo ed immediato rapporto tra gli uomini” (Antoni, 1969), strumento indispensabile per garantire la condivisione di pensieri, esperienze, sentimenti e conoscenze da cui scaturisce il processo di costruzione permanente di una cultura collettiva e di progressiva maturazione di una coscienza politica e civile dei membri di una comunità. L’identità etnica, poi, intesa alla stregua di origine comune, di discendenza da una stessa stirpe, di comunità di razza e di sangue, ovvero nel senso di “identica mescolanza di razze”, permane ancor oggi quale elemento identificativo di una nazione, ancorché, però, sia fin troppo agevole rilevare che, con riguardo all’era moderna e contemporanea, “non vi sono popoli di razza pura e che impresa disperata è rintracciarne una origine etnica determinata” (Crisafulli, Nocilla, 1977). In un siffatto contesto, assumono un valore deontico, in vista del rafforzamento del senso di appartenenza alla medesima comunità, gli elementi simbolici delle tradizioni storiche e culturali condivise dai membri della collettività. Al contempo, l’apertura al dialogo interculturale, la circolazione, lo scambio e le interazioni tra le diverse comunità assurgono a fattore di crescita civile senza annichilire i tratti caratteristici propri di ciascuna collettività politica e senza richiedere la marginalizzazione dei valori patriottici e di unità che contribuiscono a costruire e rafforzare l’idem sentire dei membri di una nazione, ancorché composta da molteplici nazionalità. Ciò vale, in verità, non soltanto in riferimento ad un assetto politico/costituzionale proprio di ciascun Stato sovrano, bensì ben può costituire le fondamenta assiologiche sulle quali radicare un processo di edificazione di un ordinamento sovranazionale in cui i popoli di differenti Nazioni si riconoscano “uniti nella diversità”. In questo senso, ad esempio, può dirsi che la storia del percorso intrapreso nella direzione della costruzione di un’Europa unita sia stata contraddistinta, nel tempo, da momenti di fiducia alternati a fasi di profondo scetticismo, spesso dovute a ragioni di carattere contingente, legate sia a perplessità d’ordine teorico, sia a non condivise scelte di natura politica ed economica effettuate da parte degli organi (prima delle Comunità ed ora) dell’Unione. Accanto ad un intenso ed appassionato processo di progressiva armonizzazione ed uniformazione degli ordinamenti, compiuto grazie ad epocali riforme strutturali dell’assetto ordinamentale europeo, in uno con una progressiva dilatazione delle (tecniche di) tutele apprestate in favore delle libertà fondamentali dell’individuo, si è assistito anche all’emersione di (in alcuni casi, strumentali) istanze di rivendicazione di autonomia ed indipendenza, frutto del presunto deficit democratico “rimproverato” all’assetto di governo dell’Unione. Le recenti tendenze “indipendentiste e/o autonomiste” emerse in seno ad alcuni Paesi hanno condotto improvvisamente ad abbandonare (rectius: delegittimare) i "dialoghi tra le Corti", il "processo costituente europeo", il "federalizing process" e il “costituzionalismo multilivello”, per dare risalto ad un dibattito otto-novecentesco su sovranità, suffragio universale e nazionalismo. Ciò, in realtà, non deve necessariamente assumere il sapore di una sconfitta, ovvero di un’inevitabile arresto (rectius: regresso) del percorso di condivisione da lungo tempo ormai avviato e, di certo, non ancora giunto a compiuto compimento. Al contrario, è proprio nella ricerca di un fondamento e nel riconoscimento di effettività del principio di sovranità popolare che va radicato il rafforzamento di un idem sentire de re publica in cui possano ritrovarsi i popoli europei. L’obiettivo diviene, in questa direzione, il superamento degli angusti confini nazionali entro cui sono ristretti i particolarismi propri delle impostazione dogmatiche settarie di matrice nazionalista, in vista di una prospettiva d’insieme, universalistica e/o cosmopolita, pur mantenendo salde le tradizioni ed il sentimento nazionale delle diverse collettività politiche. Si innesta, entro un siffatto quadro assiologico, un processo di “frantumazione” del principio di unità dell’ordinamento giuridico nell’ottica di una sempre più massiccia rivendicazione, promossa da parte di gruppi sociali eterogenei, di riconoscimento delle diverse identità culturali, etniche, linguistiche e religiose, che si manifestano con sempre maggior enfasi all’interno di ogni singola comunità statale. Si oltrepassa, per tale via, la concezione etnocentrica del diritto, quale principale fattore di legittimazione dell’unità politica dello Stato e strumento di identificazione individuale e collettiva dell’elemento personale dell’ordinamento, in favore di un approccio multiculturale (e di tutela multilivello dei diritti inviolabili della persona) in cui l’idea di nazione e lo stesso nazionalismo, inteso nelle sue possibili, diverse accezioni, sono destinati perdere rilevanza. In merito, si osserva, agli albori della formazione di organizzazioni sovranazionali di matrice europea si ebbe modo di evidenziare che “l’'Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto” (Schuman, 1950). Oggi, come allora, nessuna Europa unità potrà mai riuscire vitale se non venga sussidiata da un saldo e diffuso spirito civico, da una virtus che alimenti la coscienza dei singoli e la volontà politica dei Governi e ne ispiri i comportamenti secondo un principio di solidarietà che si dimostri anima e fondamento di un cammino comune. Matura l’esigenza, in definitiva, in chiave europea, della riscoperta di valori condivisi e “l’identificazione dei diritti culturali come profilo essenziale dei diritti fondamentali dell’uomo e la conseguente possibilità di garantire il pluralismo ideologico-culturale attraverso gli strumenti e le tecniche proprie dei diritti fondamentali” (Carrozza, 1995).

 

Panel 2.7 I partiti politici oggi: come ripensarne funzioni, organizzazione e scopo dal punto di vista teorico.


I partiti politici sono un dispositivo del passato o uno strumento del presente? La democrazia contemporanea può fare a meno dei partiti? Senza partiti come strutturare diversamente una partecipazione politica capace di condizionare le scelte dei governanti? Importanti studi empirici sui nuovi modelli partitici, le ricerche sulla crisi organizzativa, le analisi elettorali e gli studi sulla membership non esauriscono la domanda legata all’importanza e alla intercambiabilità dello strumento partito all’interno dei meccanismi di regolazione democratica.
A partire da tali considerazioni il panel si propone di accogliere una riflessione teorica sullo stato dei partiti, oggi, sulle loro possibili evoluzioni e sul rapporto con l’ambiente esterno in regime di economia globalizzata. In particolare, l’interesse prevalente è orientato ad approfondire il tema della trasformazione dei partiti, le funzioni ad essi ancora riservate e quelle andate perdute, il rapporto con le forme della democrazia post-ideologica e con i meccanismi più recenti della partecipazione politica. L’obiettivo è descrivere lo scenario del cambiamento, per cercare di capire se lo strumento partito, comparso sullo scenario politico internazionale in determinate condizioni storiche, può sopravvivere anche in regime di profondi cambiamenti politici, in che modo e in che misura.
Può in generale, si avverte l’esigenza di tornare a interrogarsi sul piano teorico sull’idea stessa di partito, in una fase storica che sembra registrare il loro declino funzionale e la loro crescente delegittimazione come strumento di partecipazione e rappresentanza. Su questo versante, si ritiene utile proporre, accanto ad analisi e ricerche più orientate in senso empirico-descrittivo, anche una rilettura critica dei classici del pensiero politico che, a partire dalla Settecento, hanno cercato di rispondere alla domanda (tornata evidentemente d’attualità) “cos’è un partito?”.
2.7 I partiti politici oggi: come ripensarne funzioni, organizzazione e scopo dal punto di vista teorico.

Chairs: Marco Damiani, Lorenzo Viviani

Discussants: Marco Damiani, Lorenzo Viviani

Ripensare l'intermediazione politica per ripensare il partito: spunti di riflessione a partire dal caso tunisino
Gaia Gondino
AbstractIn un contesto in cui lo spettro della disintermediazione si aggira per l’Europa, e non solo, interrogarsi sulle frontiere teoriche ed empiriche di questi corpi intermedi (Mény 2011) appare tutt’altro che privo di interesse. A partire dal caso tunisino e dalla formale scomparsa nel 2011 dell’ex-partito ‘quasi’ unico, protagonista della scena politica nazionale fin dagli anni Cinquanta, propongo di tornare a riflettere circa la portata euristica di uno tra gli interrogativi classici della scienza politica, ossia che cosa significa la presunta ‘scomparsa’ di un partito. Nei contesti di recente transizione democratica, le analisi di carattere organizzativo e funzionale tendono a concentrare maggiormente l’attenzione su come la ‘fine’ di un partito egemonico, e lo smantellamento delle sue reti, contribuiscano a inaugurare un nuovo capitolo nell’evoluzione del sistema di partito (Hinnebush 2017). In tali contesti, le forme di ibridazione, a cui regimi, luoghi e attori politici paiono essere costantemente sottoposti, sono invece prese in considerazione con minor frequenza (Dobry 1986). Rifacendomi alla tradizione della sociologia storica della politica (Paci 2013), intendo sviluppare una riflessione che tenti di ripensare la traiettoria lineare di ‘nascita, vita, morte’ del partito attraverso l’analisi di differenti forme di intermediazione politica. L’originalità di questa proposta risiede quindi nel soffermare l'attenzione su queste pratiche, sfruttandole come strumento d’analisi per ripensare lo spazio politico occupato dai partiti tanto in contesti democraticamente maturi che in via di consolidamento. Se si immagina il partito come uno spazio di forze all’interno del quale si sviluppano interazioni più o meno competitive (Weber 1919) e attraverso il quale si articolano rapporti con altri mondi sociali, le dimensioni relazionale e storica dell’intermediazione diventano il fulcro d’analisi (Offerlé 1987). Riabilitare in tal senso questa categoria permetterebbe di intendere l’agire politico in maniera più ampia e, al contempo, di pensare i confini dell’attore partitico in una prospettiva meno rigida, riorientando lo sguardo anche su luoghi politici ‘altri’. Il caso tunisino si presenta quindi come terreno fertile per ripensare le forme di intermediazione sia come modi di costruire e legittimare legami politici che come pratiche che attraversano la temporalità dei regimi, costituendo così un avamposto privilegiato per osservare il mutamento politico e sociale in corso.

"Leading by example": il ruolo delle organizzazioni collaterali al Labour Party (UK) nel combattere il processo di depoliticizzazione.
Rosa Fioravante
AbstractThe UK Labour Party offers an interesting study case to provide an enquiry on a possible response to what has been called the “widening political apathy gap”, increasingly underlined by WVS (Foa, Mounk 2016). Moving from studies on depoliticization and repoliticization processes (Hay 200; Mair, 2013; Wilson, Swyngedouw 2014), this paper aims to shed new light on the strategy of the UK Labour Party to face the crisis of traditional social-democratic parties and, more broadly, democratic disenchantment. In order to do so, the case of some “collateral” organizations, such as Momentum and The World Transformed, linked with Labour political are,a but acting autonomously, will be explored. Following the election of Jeremy Corbyn during the 2015 leadership contest, the Labour Party has been committed to stress the value of democratic practices at different levels: first, concerning the general political goals of the party and towards the democratization of the economy (see the re-opened debate on Clause IV: Adams, 1998; Leach, 2015. Also see: proceedings of the “Alternative Models of Ownership Conference”, Labour Party 10 Feb. 2018); secondly, concerning its internal organization. This work focuses on the second level, looking into how collateral organizations contributed to the democratization of internal debates, to the development of grassroots mobilizations and new forms of engagement at local and national level wiithin leadership elections processes. Moreover, it seeks to understand what kind of role these organizations have been playing in the effort towards repoliticization, especially among young generations, by providing an analysis of their structures, fundraising and recruiting strategies, political training and cultural events designing. Some literature already underlines Momentum’s role in digital activism (Gerbaudo, 2019) and its ability to build grassroot campaigns (Diamond, 2016; Pitts, Dinerstein, 2017), but there is a gap concerning an overall analysis on its development and its relations with the Labour Party. Looking at similar cases, The World Transformed activity is further to be investigated in the light of its close connections with a variety of magazines, periodicals, blogs, publishers and media partners (also international organizations, such as Transform!Europe), all of them playing a crucial role in popularizing the Labour Party’s positions, together with debating them, and producing a large number of articles, essays, books, pamphlets and materials aimed to supporting a socialist agenda. Indeed, looking back at Labour’s past, the party has always been a remarkable case of internal pluralism, entangled with vibrant exchanges with collateral bodies (not only trade unions, but also think-thanks and intellectual groups, some examples are provided by Stears 1998, Fishel Milburn, 1958). As well as in recent history, it is not the first time that the Labour Party provides an interesting study case on a certain way to reinterpret social democracy (Freeden 1999). This can be observed both regarding ideological and policy issues (Hay, 2006), and by looking at its organizational strategy to comply with the effort of conveying a different understanding of the role of political parties in the post-ideological era (Avril, 2016; Pembertona, Wickham-Jone, 2013). Although the current Labour leadership represents a very different vision compared to Blair’s New Labour season, it provides a similar effort in shaping a new perspective for the party within the surrounding political scenario. The membership of the Labour Party has doubled since 2015, rising to roughly 550.000 members in 2017, although it is estimated to have undergone a contraction of about the 10% since then. In a country not outstandingly incline to party membership, and in times of generalized party membership continuous decline (Van Biezen, Mair, Poguntke, 2012), the reasons of this growth are to be still widely discussed. Indeed, while we have significant knowledge on what kind of new members Labour has acquired in the after-2015 leadership contest period (see: Party Membership Project; Whiteley, Poletti, Webb, Bale 2019), there still is a lack of understanding of the role that collateral movements and organizations have played in this growth process. Deepening the topic of the role of collateral organizations in fighting depoliticization might help to suggest new perspectives on Jeremy Corbyn and the Labour Party’s strategy aiming to do so, by pushing forward a socialist radical agenda (Worth, 2019; Panitch, Gindin, 2018) and by pursuing internal re-organization of the party itself. Moreover, this research would contribute in shedding light on new forms of intersection between the grassroot, the state and the central office levels of the party.

Dalla rappresentanza alla somiglianza. Analisi dell’evoluzione del rapporto tra partiti politici e società.
Andrea Scolari
AbstractI partiti politici da più di un secolo sono l’emblema della dinamicità delle istituzioni democratiche. Questi, seppur con evidenti difficoltà, più di altri gruppi sociali si sono trasformati per poter sopravvivere alle sfide del mutamento sociale e rimangono al centro della scena politica. Il presente contributo intende confrontare l’evoluzione della forma partitica e delle forme sociali, per rispondere alla domanda: i partiti politici quali forme potranno assumere e quali funzioni svolgere nell’era della “democrazia immediata”? Partendo dai primi studi della “sociologia dei partiti” si considererà l’azione della “legge ferrea dell’oligarchia” e la conseguente necessità dei partiti di mantenere vivo il rapporto con le basi sociali che ne giustificano l’esistenza. Seguendo quest’indirizzo i partiti politici nel corso dell’ultimo mezzo secolo, dall’avvento della “rivoluzione silenziosa”, si sono continuamente trasformati. Gli effetti dell’ingresso dei valori postmaterialisti e individualistici hanno indotto dapprima lo scongelamento dei cleavages Rokkaniani e in seguito l’adattamento dei partiti secondo il modello del “catch-all party”. Da allora la forma partitica ha sperimentato diverse mutazioni: “cartel party”, partiti professionali elettorali, partiti mediali, personali, carismatici, fino ai partiti populisti che dominano la scena contemporanea. Allo stesso tempo anche la società è cambiata: alle fratture degli anni Settanta se ne sono aggiunte di nuove e ne sono ricomparse di vecchie, rendendo a loro volta le basi sociali sempre più instabili. La tensione tra il tentativo di determinare la forma il più ampia possibile della propria base sociale e quello di non perdere il nocciolo duro dei votanti è alla base dei cambiamenti descritti in precedenza e della forza del modello populista nella società contemporanea. Tuttavia il modello organizzativo populista votato alla personificazione piuttosto che alla rappresentanza e alla disintermediazione piuttosto che al coinvolgimento dei cittadini comporta dei rischi per la democrazia e per la società, e necessita di controparti altrettanto forti. Quali possano essere queste controparti, quali esempi di organizzazione possano seguire e come possano agire in modo da essere altrettanto efficaci nella società contemporanea sono le domande fondamentali alle quali si cercherà di rispondere.

Factionalism under Party Government: Rethinking the Ambivalence of Parties through Silvio Spaventa and Marco Minghetti
David Ragazzoni
AbstractFollowing the historical path suggested in the last paragraph of the panel’s proposal, this paper contextualizes, explores, and compares a selection of writings on party government and the modern State authored throughout the 1880s by two major representatives of post-Risorgimento Italian liberalism – Silvio Spaventa (1822–1893) and Marco Minghetti (1818–1886). From different perspectives, they equally placed parties at the core of their writings. Between 1879 and 1886, in fact, they enquired into the virtues and vices of party government in publications, public lectures, and parliamentary speeches through which they deliberately replied to each other. By doing so, Spaventa and Minghetti participated to a broader discussion on the “crisis” of parliamentarianism and the sovereign State across late nineteenth-century Europe fueled by the expansion of the suffrage and the advent of parties as a prominent form of political agency (Tessitore 1963; Cuomo 1996; Pombeni 2010; Gregorio 2013). The unprecedented role of party politics in the construction of political representation became a major theme in the emerging landscape of Italian political science at the turn of the century (Bobbio 1969) and in the later unfolding of competing ideological traditions. However, outside the boundaries of Italian scholarship (Valitutti 1966; Vinciguerra 1968; Bettinelli 1982; Scoppola 1991; Truffelli 2003; Del Pennino and Compagna 2006; Capozzi 2009; Gregorio 2013; Lupo 2013), this very rich history has unfortunately received scarce attention (with the partial exception of Bellamy 1987, 2018). Within the recent revival of the study of parties in Anglo-American political theory, historical and contemporary (Rosenblum 2008; Muirhead 2014; White and Ypi 2016), the contribution of modern Italian thinkers is hardly mentioned. The Italian case has notoriously attracted the attention of Anglophone historians (and political scientists); however, the division of labor between constitutional and political history, on the one hand, and intellectual history on the other, has led to a piecemeal approach that has either privileged institutions over theories or emphasized the biographical dimension of a few representative figures. In the English language, a historical monograph on the various strains of Italian antipartyism is yet to be written. As I shall demonstrate, a comparative study of the writings of Spaventa and Minghetti – two protagonists of Italian political history and thought in post-Risorgimento liberalism – has the potential to start filling this void. It retrieves an important chapter in the Italian debates on the nature and role of parties at the dawn of electoral politics and discloses two diverging paths toward the same goal – i.e., the pursuit of political freedom under party government. The former path, revolving around the primacy of the State and its unity, was the strategy of monism pursued by Spaventa; the latter, championing self-government and local autonomies, was the strategy of pluralism embraced by Minghetti. This comparison also unveils two parallel dynamics in the reception of European political thought in late-nineteenth century Italy – one (Spaventa) primarily influenced by Hegel’s theory of the State and its reception in the Neapolitan context, to which Silvio and his brother prominently contributed; the other (Minghetti) receptive of a broader array of Continental and English theories (from Bluntschli and von Gneist to Mill and Tocqueville) and emphasizing their praise of the plurality of associations enlivening civil society. As I demonstrate, the Hegelian Spaventa and the non-Hegelian Minghetti similarly addressed the role of the legislative, and the interactions of parties therein, within the accepted boundaries of the State and, in doing so, unexpectedly converged in revisiting (Spaventa) or powerfully questioning (Minghetti) Hegel’s vision of the assembly as a mere consultative body. The primacy that Spaventa, in the footsteps of Hegel, ascribed to the State did not make him blind to the interconnection between the State, civil society, and political parties – three equally important pieces in the puzzle of modern representative politics that lay at the core of his institutional vision. The complexity of the State urged Spaventa to make the relation between its political and its juridical dimension – and thus the relation between party politics and public administration – a key concern of his thought and action. Whether, and how, the rule of law (“Stato di diritto”) and party government (“Governo di partito”) could be reconciled was the question that ran consistently throughout his later contributions. As a comparative reading of his “Justice in the Administration” (1880) and “The Expansion of Suffrage and Political Parties” (1882) reveals, two were the solutions that Spaventa envisioned for securing the primacy, and impartiality, of the State under conditions of party government. First, he suggested to preserve the administration untouched by the interferences of parties through the expansion of the Council of State (a legal and administrative agency with full jurisdiction on most administrative acts). Second, he vigorously called for a bi-party system, capable of enabling rotation in office and thus turning parties into responsible institutional agents (as he auspicated in the vein of Hegel). The paper then turns to Minghetti’s seminal book “I partiti politici e l’ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione” (1881). In dissecting its arguments, it shows why it deserves more attention among Anglophone scholars working on the long history of antipartyism, as the first systematic defense and analysis of parties, and their difference from factions, in the history of modern Italian political thought. Three were, on Minghetti’s account, the defining features of parliamentary government as party government: the electoral representation of the people via one or two legislative assemblies; the subordination of the executive and its Ministers to the legislative in terms of legitimacy and accountability; and the rotation in office among competing parties. This threefold axiom raised a fundamental question: what is a political party? The paper retrieves Minghetti’s definition of parties and their factors (“cagioni”), his clarification of the distinction between parties and factions, and his emphasis on the communal ground between competing parties. It also recalls Minghetti’s pragmatic and principled defense of parties (and party spirit) as both necessary and healthy for modern representative governments. Nevertheless, Minghetti did not lose sight of the shortcomings of party spirit and distinguished between “intrinsic” and “accidental” evils of parliamentary government as party government. As he summarized resorting to the long-lived analogy between the human body and the body politic and presenting his theory as a contribution to the classical typologies of forms of government and their corruption (from Plato and Aristotle to Polybius and beyond), the former evils resemble “chronic diseases” while the latter evoke the pathologies triggered by “acute” ones. Under the rubric of “accidental evils”, Minghetti explored those institutional behaviors disfiguring his normative vision of non-factional parties. On his account, parties deteriorate into factions whenever they resort to violence to conquer political power. Second, parties become factions whenever they employ illegitimate means to either get their own candidates elected (hence the problem of electoral corruption) or attract within their own orbit MPs affiliated with rival parties (hence the problem of “trasformismo”). However, Minghetti focused on a third form of factionalism, more elusive and thus more difficult to tame, concerning the tendency of parties to infiltrate into two quintessentially non-political domains: the judiciary and public administration. The final part of the paper reconnects the works of Spaventa and Minghetti to raise one final question – whether party government constituted, on their accounts, a promising contribution of the moderns or the unexpected source of modern tyranny (no longer embodied by one individual, as for the ancients, but pluralized and thus more difficult to tame). This question would long resonate throughout Italy’s later political history and thought – from the fear of “partitocrazia” in the aftermath of Fascism to Giuseppe Maranini’s (1963) critique of mass parties as a multi-headed “faceless tyrant”, up through the contemporary assault on parties by populist leaders and movements. Far from a concern of the past, it is a question that remains at the forefront of contemporary debates on democracy and has thus the potential to refresh our understanding of parties in the present.

L’IBRIDAZIONE ORGANIZZATIVA: UNA POSSIBILE RISPOSTA ALLA CRISI DEI PARTITI
Raffaella Fittipaldi
AbstractQuesto lavoro vuole delineare le caratteristiche di un nuovo modello di organizzazione politica: il partito-movimento (Kitschelt 2006; Lawson, Merkl 1988; Martín 2015; Poguntke 1987). Il paper si divide principalmente in quattro sezioni. Nella prima si propone una disamina della letteratura sui partiti politici, nella prospettiva organizzativa che il lavoro si propone di sviluppare (Panebianco 1982; Raniolo 2004; Raniolo et al. 2015). Nella seconda sezione, si offre una rassegna, speculare alla prima parte dedicata ai partiti politici, delle maggiori teorie sociologiche e politologiche sui movimenti sociali così da rendere più immediato lo sforzo di sintesi operato nella parte conclusiva (McAdam, Tarrow 2010; della Porta 2006). Questo passaggio è, inoltre, rilevante ai fini della creazione del dialogo tra i due campi di analisi e le relative letterature di riferimento. Infatti, sebbene partiti e movimenti rappresentino entrambi attori sociali del sistema politico, non esiste una connessione istituzionalizzata né a livello pragmatico, nella realtà contemporanea, né a livello teorico-politico tra questi due “idealtipi” dell’agire collettivo. Nella terza sezione si espongono le teorie sull’istituzionalizzazione, funzionali a tratteggiare la forma organizzativa ibrida del partito-movimento (Harmel et al. 2016; Huntington 1965; Panebianco 1982). Si ipotizza, a tal proposito, che questa categoria possa rappresentare un tipo o una sottospecie di partito politico in grado di adattarsi al mutamento sociale e rispondere alla crisi di delegittimazione che le istituzioni e gli attori politici vivono. Nell’ultima sezione e in conclusione a questo lavoro, si propone una sintesi degli elementi genetici caratterizzanti l’ibrido organizzativo: il partito-movimento (della Porta et al. 2017; Fittipaldi 2017; Mosca, Quaranta 2017). Questo modello organizzativo può rappresentare un contenitore innovativo per raccogliere, attivare o riattivare, la partecipazione politica e un nuovo vettore per assolvere alle tradizionali funzioni dei partiti politici mainstream?