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Convegno Sisp 2017

Sections and Panels

Section 2. Teoria Politica (Political Theory)

Coordinators: Luca Ozzano (luca.ozzano@unito.it), Marco Valbruzzi (marco.valbruzzi@gmail.com)

Questa sezione di Teoria politica intende favorire una riflessione (critica) attorno ai fondamenti, agli assunti e ai principali temi della scienza politica contemporanea. In particolare, ma non esclusivamente, sono benvenute tutte quelle proposte che intendano mettere in discussione gli approcci epistemologici e metodologici prevalenti nella disciplina. Esiste inoltre una scienza politica o all’interno della disciplina è possibile individuare (e far convivere) approcci di ricerca diversi, anche se non necessariamente alternativi l’uno all’altro?
Allo stesso tempo, si sollecitano contributi sui concetti fondamentali della scienza politica, a partire da tematiche che, pur restando centrali, non sembrano suscitare più il dovuto interesse o l’attenzione dei ricercatori: dal concetto stesso di “politica”, comprese le sue più recenti mutazioni, a quello di “sovranità”, soprattutto se collegato alle trasformazioni della democrazia e della teoria democratica; dal tema a sua volta classico del “potere” a tutta una serie di parole-chiave o di termini (“consenso”, “obbedienza”, “partiti”, “conflitto”, “partecipazione”, “pluralismo”, “ordine”, “legittimità”, “nazione” ecc. ) che sono al cuore degli studi di scienza politica, ma che spesso vengono dati per presupposti e non più indagati nei loro diversi significati dal punto di vista, appunto, teorico.
Un altro tema che questa sezione intende investigare è il ruolo delle differenze culturali – in particolar modo religiose – nelle democrazie contemporanee. Dal momento che lo Stato moderno si fonda su fonti “interne” (come spiegato da Böckenförde), in che modo la sua unità può essere garantita a fronte di società sempre più multiculturali e multireligiose? A questa domanda sono state date diverse risposte, dalle riflessioni sulla “religione civile” di Bellah, all’idea (proposta in vario modo da autori come Habermas e Rawls) di un accordo preliminare su alcune regole del gioco e valori di base, che possano garantire uguaglianza ai diversi valori e preferenze. Questa discussione sarà indagata anche in relazione ai dibattiti sulle questioni di bioetica e sulla presenza delle minoranze religiose nell’Europa contemporanea.
Particolare attenzione sarà riservata inoltre a quei panel che sappiano mostrare, in punto di teoria o di realizzazione empirica, le crescenti – e a tutt’oggi ancor poco sfruttate – possibilità di integrazione della scienza politica con altre discipline ad essa più o meno contigue: scienze cognitive, psicologia sociale, neuroscienza, biologia, economia politica ecc. Si sollecitano, inoltre, anche proposte finalizzate ad approfondire in che misura lo studio scientifico della politica possa arricchirsi dal confronto – sul piano metodologico e dei contenuti – con tutte quelle discipline che hanno a loro volta la politica come oggetto esclusivo o primario di interesse (Storia delle dottrine politiche, Filosofia politica, Sociologia politica, Storia politica ecc.).
 

Panel 2.1 Autori e ricerche della politologia storica


Questo panel è promosso dallo standing group "Politica e storia" della Sisp. Nel 2003 Theda Skocpol ricordava che: "l'analisi storica comparata si è ormai legittimata come uno degli approcci di ricerca più fruttuosi della scienza sociale moderna (...)". Rispetto alle promettenti indicazioni provenienti dalla scienza polittica americana, la situazione italiana ci pare, al momento, meno incoraggiante. Eppure, da più parti si sottolinea l'esigenza di oltrepassare un clima culturale iper-specializzato, caratterizzato dall'egemonia delle scienze sociali decontestualizzate e sradicate dalla dimensione diacronica (Erk 2013; Palano 2015).
Noi riteniamo che, per la sua natura, la politologia storica possa contribuire in modo sostanziale a modificare tale scenario e che oggi interi filoni di ricerca possano strutturarsi attingendo ad un grande patrimonio di politologia storica, sedimentato attraverso i lavori di Max Weber, Vilfredo Pareto, Barrington Moore jr., Reinhard Bendix, Otto Hintze, Norbert Elias, Stein Rokkan, Juan Linz, Alessandro Pizzorno e Gianfranco Poggi, aprendosi al confronto con la sociologia storica che articola sempre nuovi filoni di ricerca (Paci 2013).
Pertanto, nel nostro panel accoglieremo sia papers dedicati al recupero della lezione di grandi classici della politologia storica, sia contributi dedicati a valorizzare le principali analisi storiche comparate, in un'ottica volutamente interdisciplinare

Chairs: Marco Almagisti, Paolo Graziano

Discussants: Paolo Chiocchetti

Nemici per la pelle. Le politiche internazionali di PCI e PCF e la lotta per la egemonia del movimento comunista occidentale
Valentine Lomellini (valentine.lomellini@unipd.it)
AbstractNell’ultimo decennio, la storiografia delle relazioni internazionali ha sviluppato un interesse spiccato per l’analisi degli attori politici non tradizionali: superando l’approccio classico di storia diplomatica, gli specialisti delle relazioni internazionali hanno assunto un orientamento più marcatamente transnazionale, favorendo la genesi di studi dal manifesto carattere interdisciplinare, un fruttuoso sincretismo tra la storia delle relazioni internazionali, la storia contemporanea e la scienza politica. In questo ambito si colloca la presente proposta che ha come obiettivo l’approfondimento delle politiche estere dei due principali Partiti comunisti d’Occidente – quello di Francia e quello d’Italia – in chiave comparata, con particolare riferimento alla loro relazione con le due superpotenze nel corso degli anni Settanta e Ottanta del Novecento. In particolare, l’analisi si svilupperà intorno alle seguenti direttrici: 1. lo studio comparato delle relazioni tra il PCI, il PCF e l’Unione Sovietica: il breve excursus dell’eurocomunismo nel corso della “grande distensione”; 2. l’approfondimento della percezione comunista occidentale della superpotenza statunitense, tra tradizionale antiamericanismo e tentativi di dialogo; 3. la lotta intestina tra PCI e PCF per l’egemonia del movimento comunista in Occidente. Valorizzando una delle principali tendenze della storiografia internazionale, le tre direttrici verranno sviluppate conferendo una particolare attenzione al nesso tra contesto nazionale, internazionale e alle dinamiche interne agli attori politici sotto esame. La proposta, frutto di uno studio di lungo periodo intorno alla politica estera del comunismo occidentale, verrà sviluppata utilizzando fonti archivistiche (Archive d’histoire contemporaine, Archive du PCF – Seine-Saint Denis, Archives nationales, Centre des Archives diplomatique de France, Institut François Mitterrand, Office Universitaire de recherche socialiste, National Security Archives, Open Society Archives, Archivio centrale del PCI – Fondazione Antonio Gramsci, Archivio della Camera dei Deputati, National Archives of the United Kingdom International, Instituut voor Sociale Geschiedenis) e fonti secondarie.

La "rivoluzione passiva" come categoria della politologia storica
Alfredo Ferrara (ferraraalfredo@hotmail.com)
AbstractNel 1801, da esule a Parigi, Vincenzo Cuoco pubblicava il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana nel quale analizzava da testimone diretto i limiti della breve esperienza repubblicana che Napoli aveva conosciuto solo due anni prima. Per analizzarla utilizzava una definizione che già alcuni protagonisti di quei fatti pronunciavano per indicare il processo a cui stavano prendendo parte: rivoluzione passiva. Circa 130 anni dopo Antonio Gramsci, dal carcere di Turi, riprendeva questo concetto, declinandolo in forme nuove, per interpretare due fenomeni profondamente diversi tra loro: il Risorgimento, un processo storico conclusosi, ed il fascismo, fenomeno rispetto al quale egli era contemporaneo e commentatore non neutrale. Tale concetto ha conosciuto nel dibattito degli ultimi decenni una grande fortuna per interpretare numerosi processi storici. Solo per citare alcuni casi: è stata utilizzata per interpretare la globalizzazione (Sassoon, 2010), la contro-rivoluzione neo-conservatrice (Burgio, 2005) e la rivista Capital&Class vi ha dedicato nel 2010 un numero monografico con sette articoli aventi per oggetto altrettanti processi storico-politici interpretati come rivoluzioni passive. Ciò che ci proponiamo con il nostro contributo è, dopo aver brevemente ricostruito la genealogia del concetto, enucleare i punti principali della formulazione che a noi sembra più interessante: quella proposta da Gramsci in riferimento al fascismo. Questa valutazione deriva dal fatto che con tale formulazione il concetto si spoglia di tutti gli elementi che lo inchiodano al suo luogo genetico (le rivoluzioni della modernità) e offre invece una postura epistemologica utile per comprendere i processi di mutamento politico nelle mature società di massa. In particolar modo ci concentreremo su tre aspetti della formulazione gramsciana: 1) cosa differenzia una rivoluzione passiva da una restaurazione; 2) il significato della dicotomia progressivo/regressivo che Gramsci attribuisce ai processi politici (elemento particolarmente importante nelle rivoluzioni passive perché contraddistinte dalla combinazione di entrambi gli aspetti); 3) l'alternanza tra fasi storiche in cui il conflitto politico assume la forma della guerra di movimento e fasi in cui assume la forma della guerra di posizione e l'emergere di rivoluzioni passive all'interno di questo quadro.

I partiti della sinistra radicale Euro-mediterranea. 1989-2017: un bilancio storico quasi trentennale
Marco Damiani (marco.damiani@unipg.it)
AbstractLa stagione che si apre dopo la fine della guerra fredda rappresenta una fase nuova, che in Occidente vede protagoniste rinnovate forme di organizzazione politica. Se all’inizio degli anni novanta del XX secolo la sinistra europea viene descritta come un «esercito in ritirata» e se dopo l’implosione dell’Unione Sovietica sembra inevitabile un ridimensionamento del campo dei partiti di sinistra e, in particolare, di quelli collocati a sinistra dei partiti socialisti e socialdemocratici, all’inizio del terzo millennio emergono rinnovati modelli di partito, che presentano innovazioni importanti rispetto alla precedente tradizione storica. A partire da tali considerazioni, questo contributo si propone di studiare i cambiamenti che caratterizzano i partiti della sinistra radicale di tutti i Paesi dell’Europa mediterranea, negli anni compresi tra il 1989 e il 2017. I Paesi coinvolti sono Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Grecia. I partiti presi in esame sono quelli che rispettano almeno uno dei seguenti requisiti metodologici: 1) capacità di eleggere autonomamente propri rappresentanti nell’eurogruppo parlamentare del GUE-NGL (Gauche unitaire européenne–Nordic Green Left); 2) adesione all'europartito della Sinistra europea, fondato nel 2004 per riunire in un’unica formazione politica le principali sigle della new left europea. L’applicazione di tali criteri fornisce la lista dei partiti compresi nel disegno della ricerca. Per l’Italia, Rifondazione comunista (e sue diverse declinazioni politiche) e Sinistra italiana; per la Francia, il Partito comunista francese, il Front de gauche e France insoumise; per la Spagna Izquierda Unida e Podemos; per il Portogallo, il Bloco de esquerda; per la Grecia, Synaspismos e Syriza. L’obiettivo è quello di comparare i processi di trasformazione che vedono coinvolti tali partiti, soffermando l’attenzione sul modello di leadership, sull’impianto dei valori condivisi, sulla struttura organizzativa, sulla membership e sul trend elettorale riscontrato all’interno dei confini spazio-temporale presi in considerazione.

Strategie di ricerca sull'estrema destra in Germania e in Italia. Approcci diversi per diverse democrazie?
Giorgia Bulli (giorgia.bulli@unifi.it)
AbstractIl paper si propone di inquadrare le variabili chiave che fanno da sfondo alla ricerca sull’estrema destra in Italia e Germania, dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi. Se la produzione scientifica sui successi e gli insuccessi di partiti e movimenti di quell’area politica è stata ampia nei due paesi, un’attenzione minore è stata dedicata alla ricognizione del processo di sviluppo storico-istituzionale che, diverso nei due paesi, ha dato luogo a modelli di democrazia diversi. Le differenze in termini di configurazione istituzionale, sviluppo del sistema partitico, natura della cultura politica nei due paesi si sono riflesse in maniera evidente in una non trascurabile eterogeneità nell’uso di categorie concettuali, percorsi e metodi di ricerca, utilizzo – o mancato utilizzo - dei risultati empirici nell’ambito decisionale. A partire dall’analisi comparata tra Italia e Germania si intende quindi verificare se si possa suggerire una sorta di “path dependency” nell’evoluzione dei temi di ricerca nel corso del tempo e se, a modiche di tipo partitico-istituzionale corrisponda l’adozione di prospettive di studio diverse.

 

Panel 2.3 Nazione e nazionalità: prospettive teoriche, empiriche e metodologiche


Negli ultimi decenni si è assistito a un rinnovato interesse per lo studio dei nazionalismi e dei movimenti nazionalisti e per l’analisi delle ripercussioni di tali ideologie e movimenti sulla politica contemporanea. Che cosa si debba intendere per nazione e nazionalità ha riscosso meno attenzione, tanto sul piano teorico quanto su quello empirico. Sul piano teorico, la nazione è considerata un fenomeno auto-evidente: si ha in genere la tendenza a incentrare la riflessione su una serie di fenomeni qualificati come nazionali (come la popolazione, il territorio, la cultura, il mercato del lavoro) senza sentire il bisogno di precisare la portata di tale qualificativo. Sul piano empirico, si assiste a uno slittamento analitico che porta a trascurare l’indagine della nazione come fenomeno e a rifocalizzare l’attenzione sul nazionalismo come ideologia o su movimenti e leader nazionalisti come attori collettivi o individuali.
Eppure, diverse prospettive teoriche – tra cui l’analisi dei sistemi-mondo, gli studi post coloniali, le teorie de-coloniali, la global-history – hanno messo in luce la rilevanza di tali fenomeni, interpretandone criticamente il processo di costruzione storica all’interno di quadri più complessi di quelli comunemente impiegati, senza tuttavia negare rilevanza a questi costrutti. Inoltre, importanti processi sociali, economici e politici – i movimenti migratori e la presenza strutturale di persone di provenienza straniera all’interno dei confini nazionali, il percorso di decolonizzazione e i conseguenti fenomeni di state- e nation-building – hanno evidenziato la necessità di comprendere cosa significhino nazione e nazionalità nel mondo contemporaneo.
Partendo da queste premesse il panel intende porre alcune questioni: attraverso quali processi politici si forma, trasforma, rinnova, produce nazione nel mondo contemporaneo? A quale livello e a partire da quali unità d’analisi è possibile indagare oggi la nazione e la nazionalità? Su quali fonti si possono indagare empiricamente tali fenomeni? Quali prospettive teoriche si aprono quando si rimette la definizione di tali fenomeni al cuore della riflessione politologica?
Il panel vuole stimolare una riflessione su tali temi con particolare – ma non esclusivo – riferimento ad alcuni ambiti e aree tematiche:
• nazione e appartenenza nazionale
• nazione e partecipazione politica
• nazione e solidarietà sociale
• nazione e conflitto
• nazione e diseguaglianza

Chairs: Irene Bono, Enrico Gargiulo

Discussants: Marta Montanini

Telling The Story of A Politicized National History: The Field and Habitus making of Israeli Historians
Alon Helled (helledalon@gmail.com)
AbstractIsraeli historians have shaped Israel’s national narratives vis-à-vis the ‘Others’ (i.e. the Arab population). This assessment raises the following questions: What has been the role of Israeli historians in forging Israeli national identity and what have been the connections between academia and politics? A traditional sociological toolkit enables us to detect the social and political features of Israeli historians (as a hermeneutic community). More specifically, the basic assumption is that their interpersonal relations as well as the trajectory of their careers delineate the fields and dispositions they themselves contribute to select, codify, formalize and even institutionalize within the realm of politics (i.e. the national ethos as an interiorized collective habitus: N. Elias, 1991; P. Bourdieu, 1998). Israeli national historiography, thus Jewish and Zionist, is a socio-political and cultural construction, based on the dichotomy ‘We vs. They’ which posits Jewish identity as superior to any form of otherness. It erects walls and boundaries between two distinct national demands over the same land. The issue can be analyzed by the process of double-end categorization: a) Israeli historians as identity-makers, contributors to the Israeli nation-state building (a political ‘survival-unit’) at the service of politics; b) Israeli historians as identity-bearers, socialized within Israeli society who inculcate their own vision into the discipline. This reveals the continuous clashes between Zionist historiography and the enterprise of post-Zionist historians (i.e. the ‘New Historians’). The deconstruction and description of the historiographical field shed light on the individual attitudes and professional experiences of Israeli historians while showing how the sociopolitical fabric of Israel has changed vis-à-vis international and domestic challenges. By following the dividing line between the world of academia and the general socio-political space, the paper situates the generations of Israeli historians and their intellectual work within the macro world of politics and uses it as a solid social unit to investigate. In order to do so, the analysis uses techniques of story-telling in-depth interviews to prominent historians and examines their overall scientific production in the original language (Hebrew), while offering less ‘mediated’ biographical and analytical sources. Key-concepts: field, habitus, Israeli identity, national history, survival unit

"La religione dell’albanese è l’albanesità”. I concetti di “nazione”, “nazionalità” e “nazionalismo” in una ricerca empirica sull’identità albanese
Giorgia Bulli (giorgia.bulli@unifi.it), Erika Cellini (erika.cellini@unifi.it), Sheyla Moroni (sheyla.moroni@unifi.it), Silvia Pezzoli (silvia.pezzoli@unifi.it)
AbstractLa costruzione dello stato nazione albanese può essere considerata come una cartina di tornasole per l’analisi teorica ed empirica dei concetti di “nazione” , “nazionalità” e “nazionalismo”. L’Albania come Stato nazione è una realtà giovane dal punto di vista dell’indipendenza e della strutturazione dei confini (1912 -1921). Il concetto di Albania come stato nazione trae origine da un “Risorgimento” tardivo, sviluppatosi nel solco tardo-ottocentesco delle rinascite nazionali. Parte fondante di questo processo è la costruzione di una codificazione linguistica che diventerà, molto più dell’appartenenza religiosa e della presunta omogeneità etnica, il centro dell’immaginata identità nazionale. Come affermato da Pashko Vasa, intellettuale punto di riferimento del “Risorgimento” nazionale albanese, “la religione dell’albanese è l’albanesità”, intesa prima di tutto come riconoscibilità linguistica, fulcro di espressioni culturali, tradizioni, valori associati ad un nucleo identitario omogeneo. In questo processo di costruzione identitaria, la centralità della lingua ha portato con sé importanti ambiguità politiche e strutturali: l’albanese è infatti parlato oltre i confini dello Stato nazione (Kosovo, Montenegro, Macedonia, Grecia). Ciò implica un continuo dialogo – non sempre pacifico- tra il concetto di “nazione” e quello di “nazionalismo”, senza parlare del rapporto tra “nazione” e “nazionalità” reso evidente dall’esistenza di comunità Arberesh nell’Italia del Sud. Alla luce dell’attuale dibattito sul binomio “implosione/esplosione” dell’idea di nazione, e delle conseguenze che esso implica nell’individuazione dell’unità di analisi di fenomeni sociali e politici, abbiamo scelto di indagare l’identità nazionale albanese, per come questa viene oggi percepita e rappresentata da testimoni privilegiati e cittadini comuni albanesi. La ricerca – prima fase di un progetto più ampio che mira a studiare il tema dell’identità nazionale in tutte le aree albanofone, interne e esterne allo stato nazione - si è svolta attraverso interviste semi strutturate nelle città di Tirana, Scutari e Durazzo, rappresentative della centralità dei fenomeni rispettivamente politico-amministrativo, storico-culturale e economico dell’Albania del centro-nord. I risultati parziali della ricerca mostrano una rappresentazione diffusa, forte e tendenzialmente omogenea dell’albanesità, evidenziando ancora oggi l’esistenza di un processo di “naturalizzazione” dell’identità nazionale.

La ri-attivazione degli etnonazionalismi e le trasformazioni degli indipendentismi contemporanei in Europa. Un’analisi multidimensionale
Carlo Pala (carlopala@uniss.it), Michel Huysseune (Michel.Huysseune@vub.ac.be), Adriano Cirulli (a.cirulli@uninettunouniversity.net)
AbstractL’odierno panorama politico europeo si caratterizza anche per la riattivazione di movimenti e partiti indipendentisti che mettono in discussione l’esistenza di alcuni Stati-Nazione del vecchio continente. La Scozia e la Catalogna rappresentano due dei casi in cui il revival indipendentista è divenuto particolarmente rilevante nei rispettivi territori così come nell’agenda politica degli stati in cui sono inseriti. Anche in altre “nazioni senza stato“ europee, pur senza raggiungere l’intensità dei summenzionati casi, il fenomeno indipendentista sperimenta una certa riattivazione e centralità nel dibattito politico: dal caso basco in fase di profonda riconfigurazione dopo la fine del periodo della lotta armata indipendentista, al contesto Nord Irlandese o sud tirolese, solo per fare alcuni esempi. Questa riattivazione indipendentista rende necessaria una revisione della visione emersa nella letteratura degli ultimi anni, secondo cui le identità substatali sembravano configurarsi in maniera compatibile con il sistema di governance multilivello della UE e con lo sviluppo di una identità europea “post-nazionalista”. La fase di crisi economica, sociale e politica della ha riattivato la conflittualità relativa alla questione della sovranità, sta mettendo in discussione i modelli di governance e le traiettorie identitarie degli ultimi decenni. Nello specifico delle nazioni senza stato, la ripoliticizzazione della issue della sovranità nel contesto europeo, in interazione con altri fattori specifici dei contesti regionali e statali, ha facilitato l’affermazione di mobilitazioni indipendentiste, o in generale etnoregionaliste, caratterizzate dalla notevole variabilità sul piano ideologico, dei discorsi e degli obiettivi: dalle posizioni dei regionalismi/indipendentismi di “destra”, che esprimono un discorso nazionalista essenzialista ed escludente in cui il recupero della sovranità nazionale si abbina a un atteggiamento sostanzialmente euroscettico, a quelle delle “sinistre” indipendentiste in cui un atteggiamento critico, ma non apertamente ostile, al processo di integrazione europea si combina con un discorso volontarista ed inclusiva sull’appartenenza nazionale, e di radicalizzazione democratica rispetto agli obiettivi più generali. Il paper proposto intende fornire una prima sistematizzazione del variegato panorama del (neo)indipendentismo in Europa, con una particolare attenzione alle diverse dimensioni che intervengono nei diversi livelli.

 

Panel 2.4 Tavola Rotonda. Studies in American Political Development: una riflessione sul rapporto tra discipline storiche e scienze sociali


La tavola rotonda ha l'obiettivo di approfondire il dialogo tra gli studiosi di storia contemporanea e gli scienziati della politica, in continuità con gli obiettivi scientifici dello Standing group "Politica e Storia". Il confronto sullo stato delle relazioni tra le due discipline, sulle possibilità di ibridazione teorica e metodologica nello studio di campi quali le istituzioni, i partiti politici, l'attivismo civico, le culture politiche... si avvierà a partire dall'esperienza della scuola statunitense dell'American Political Development (APD), della quale sono espressione autori - tra gli altri - come Karen Orren, Stephen Skowronek e Theda Skocpol. Alla tavola rotonda parteciparenno membri dello Standing Group "Politica e Storia" e membri del "Cispea" (Centro Interuniversitario di Storia e Politica Euro-Americana), proprio allo scopo di ricostruire i passaggi salienti riguardo la nascita e il consolidamento dell'APD, al fine di porre le basi per un'ampia discussione sul rapporto tra le due aree disciplinari.

Chairs: Mattia Diletti

 

Panel 2.6 Il pensiero di Hayek, il concetto di politica e il ruolo dello stato in una democrazia.


Il concetto di “politica” nella sua accezione di creare norme che plasmano la società e l'estensione delle competenze dello stato democratico sono temi fondamentale per la teoria e la prassi politica. In quali e quanti settori è necessario creare norme? Quale ruolo deve avere lo stato in economia? E' compito dello stato perseguire la giustizia sociale?
L'importanza del tema è palese osservando il dibattito in Gran Bretagna prima del referendum su Brexit o le ipotesi di riforma dell'Unione Europea. Anche a livello nazionale delineare i limiti del “politico” e di cosa si debba occupare lo stato è una priorità per rispondere alla crescente disaffezione dei cittadini verso la democrazia, alle crescenti aspettative dei cittadini, alle pressioni sullo stato sociale e alla difficoltà di governare taluni aspetti della globalizzazione.
Questo panel accoglie proposte che discutano questo tema partendo dal pensiero di Friedrich von Hayek, un pensatore che ha saputo dialogare con discipline diverse. Pur essendo un economista di formazione, si è occupato di psicologia sociale, filosofia e scienza politica. Nella cultura italiana il suo pensiero non ha avuto molto fortuna e, a torto e in modo molto semplicistico, è stato associato al filone del neoliberismo in economia. Il suo pensiero è più complesso e rappresenta una sfida per chi si interessa del politico all'interno di società complesse e multiculturali. Sono benvenuti contributi teorici che indaghino il ruolo dello stato e i suoi limiti in una democrazia come analisi empiriche.

Chairs: Maximiliano Lorenzi

Discussants: Angelo Panebianco

F.A. Hayek's economics, a neglected part of his work
Jack Birner (jack.birner@unitn.it)
AbstractParadossalmente, gli economisti hanno trascurato e continuano tuttora a trascurare la parte della vasta opera hayekiana per cui gli è stato conferito il Premio Nobel in economia e che abbia il massimo rigore analitico. Il paper farà un confronto tra l'economia di Hayek con quella di Keynes. È un fatto curioso che dopo oramai 80 anni gli attuali dibattiti su come risolvere la crisi economica risalgono direttamente a queste due teorie e visioni sull'economia e sulla politica economica diverse di Keynes e Hayek. Il confronto darà seguito ad una discussione dei rapporti tra politici e economisti.

La politica come scambio di ‘pretese individuali’. Sulla mancata risposta di Hayek al tentativo di elaborare una filosofia politica che possa escludere l’elemento della coercizione.
Jacopo Marchetti (jacopo.marchetti@cfs.unipi.it)
AbstractCon la pubblicazione del primo volume di "Law, Legislation and Liberty", nel 1973, Hayek espone per la prima volta in maniera sistematica la sua idea di “sponteanous order”, frutto delle sue precedenti riflessioni sui limiti delle capacità umane di progettare e dirigere arbitrariamente il corso degli eventi del mondo. Tuttavia, nella sua esposizione egli sembra occasionalmente lasciar trapelare alcune difficoltà nel conciliare la sua filosofia politica fondata sulla libertà con la presunta capacità dei processi sociali di auto-correggersi. Ne è un chiaro esempio un famoso passo in cui egli ammette la possibilità che i processi evolutivi possano, talvolta, condurre ad una" impasse" da cui non possono districarsi con le proprie forze, o almeno, non riescono a correggersi abbastanza velocemente e, pertanto, in casi particolari egli è portato a sostenere che non si possa fare a meno della legislazione positiva per ristabilire l’assetto dei processi spontanei. Soffermandoci su tale aspetto, la cui ambiguità fu prevista con largo anticipo dall'amico e ‘collega’ Bruno Leoni, il quale aveva messo in evidenza alcune incongruenze all’interno della teoria del potere hayekiana, si vuole riflettere sul fatto che la critica di Leoni e la sua teoria dello scambio di ‘pretese individuali’ possa rappresentare una soluzione indiretta alla filosofia politica di Hayek. Per Leoni infatti, Hayek non riesce ad elaborare una filosofia politica che riesca davvero fare a meno dell’elemento della coercizione, pur essendo quello l’intento. Mentre per Hayek la filosofia politica, pur contro le sue premesse, si deve sempre misurare con la natura del potere, inteso come coercizione — e ciò implica anche il fatto che non sempre il tempo dei ‘processi spontanei’ coincida con il tempo degli attori che ne sono coinvolti, alimentando così la domanda di una politica che rappresenta una soluzione per velocizzare tale processo — Leoni individua, invece, una soluzione alternativa, basata sulla consapevolezza che, come nel meccanismo volontario di scambio di beni in un mercato, la società possa configurarsi come uno scambio di poteri individuali. Dunque, se nelle riflessioni di Hayek il potere è un elemento che, anche se viene accettato, non viene giustificato, in quanto ha sempre a che fare con la politica, nella dimensione di Leoni la coercizione è assente e il potere viene ricondotto all’incontro delle ‘pretese’ che che vengono mutualmente riconosciute, accettate o rifiutate dagli individui.

LA CONCEZIONE DEMOCRATICA DI HAYEK COME ANTIDOTO ALLA NARRAZIONE POPULISTA
Antonello Canzano (antonello.canzano@unich.it)
AbstractHayek in The Road to Serfdom dedica parte delle sue riflessioni all’analisi del sistema democratico In quest’opera è già possibile intravedere, in nuce, quei rilievi critici, che, in The Constitution of Liberty diverranno espliciti, fino asvilupparsi in maniera sistematica in Law, legislation end Liberty. Se Hayek già anni orsono evidenziò l’abuso del termine democrazia, adattabile ad ogni situazione, oggi addirittura è quasi impossibile raggiungere un accordo su cosa debba intendersi per democrazia, piegata alle più svariate forme di propaganda. La deriva che Hayek aveva denunciato complice l’abuso della legislazione rappresentava una sostanziale rottura degli argini posti al potere politico, senza più limiti e controlli. Proprio in questo contesto ciò che oggi definiamo populismo, come malattia endemica della democrazia, può prosperare e imporsi nell’opinione pubblica propugnando l’illimitata applicazione della democrazia come concezione teleocratica ed interventista fino a stravolgerne la natura e a minarne i suoi principi fondanti come il carattere rappresentativo. Il Paper intende ricostruire la concezione hayekiana della democrazia così come emerge dalla riconciliazione con i principi del liberalismo tradizionale e che tende al recupero del suo significato originario e del vero contenuto dell’ideale democratico che contrasta con quella concezione della sovranità definita da Hayek: “superstizione costruttivistica della sovranità”. Oggi purtroppo questa concezione caratterizza quasi tutta la galassia dei movimenti e dei partiti populisti che prepotentemente si richiamo al quel “sovranismo” che mal si concilia con una vera democrazia e che anzi ne costituisce il principio dissolutivo. Il Paper, infine, a partire dalla teoria hayekiana del potere e della democrazia cercherà mettere in luce alcuni contenuti, particolarmente attuali, capaci di disvelare le principale minacce e incongruenze che si celano nel lessico e nella più generale narrazione democratica contemporanea.

HAYEK E I LIMITI DELL’ADATTAMENTO CULTURALE E SPONTANEO DEL DIRITTO. QUANDO IL POTERE PUBBLICO DEVE INTERVENIRE?
Marco Mossa Verre (m.mossaverre@gmail.com)
AbstractNel primo libro di “Law, Legislation and Liberty” Hayek affronta il problema della nascita delle istituzioni sociali, facendo soprattutto riferimento alle teorie del "diritto culturale spontaneo" e trattando il problema attraverso il linguaggio giuridico e gli strumenti concettuali della “Common Law” anglosassone. Prendendo in considerazione gli argomenti esposti da Hayek circa la nascita del diritto consuetudinario (“nomos”) in contrapposizione al diritto dell’autorità (“thesis”) nell'intervento si intendono mettere in luce i limiti teorico-pratici della sua concezione di evoluzione culturale e spontanea del diritto e della "Common Law". In particolare, tali limiti emergono quando Hayek si trova ad ammettere la necessità dell'intervento "positivo" e dunque il ricorso ad un'autorità del diritto, nei momenti di impasse del sistema giuridico, ossia in quei momenti dove l'adattamento spontaneo non è sufficiente nel risolvere i problemi di materia giuridica e politica. Hayek lascia aperta la questione circa le modalità, i casi e i limiti dell’intervento del potere pubblico, ciò che costituisce uno dei temi di maggiore attualità fra gli studiosi dei sistemi di "Common Law": l’evoluzione tecnologica e dei costumi richiede risposte sempre più rapide del diritto, che difficilmente possono trovare soddisfazione in una produzione culturale del diritto, quasi costretto ad un’”impasse continua”. Possono le esigenze degli individui trovare corrispondenza solo nell’attività delle istituzioni regolatrici? Se la risposta fosse positiva, l’intera ricostruzione hayekiana finirebbe per crollare. Ma si può immaginare una risposta alternativa se si cerca di ricostruire il penisero del filosofo austriaco al netto delle difficoltà che derivano dalla sua non sempre univoca descrizione dei sistemi di “Common law”, per proporre un’interpretazione del problema dell’impasse che Hayek aveva previsto, ma a cui non aveva saputo trovare una risposta.