Section 1. Democrazia e democratizzazioni (Democracy and democratization)
Coordinators: Barbara Pisciotta (barbara.pisciotta@uniroma3.it), Francesco Raniolo (Francesco.raniolo@unical.it)
Questa sezione si propone di accogliere i panel incentrati sullo studio della democrazia e dei processi di democratizzazione in corso o conclusi, nelle varie aree del mondo. In questa cornice, sono state individuate alcune tematiche fondamentali sulle quali orientare l’attenzione degli studiosi interessati ad avanzare proposte di panel in occasione del Convegno SISP 2017. Ciascuna di queste tematiche presuppone un’analisi comparata che tenga debitamente in conto i diversi fattori interni e internazionali, di tipo strutturale o congiunturale, coercitivo o spontaneo, che hanno condizionato il regime democratico e le varie fasi del suo sviluppo. Segnatamente, e senza pretesa di essere esaustivi, indichiamo tre ambiti di ricerca tra quelli che ci sembrano più rilevanti empiricamente e teoricamente.
Il primo tema è legato ancora agli esiti negativi del processo di democratizzazione e all’emergenza di regimi alternativi alla democrazia – si pensi in particolare alla diffusione dei cosiddetti regimi ibridi - in tutte quelle aree nelle quali è mancata la maggior parte delle condizioni favorevoli all’instaurazione democratica. Del resto, la ricerca sul campo ha individuato alcuni elementi critici che tendono a caratterizzare le democrazie fragili o appena instaurate, favorendo il rischio di involuzioni e/o interruzioni del processo democratico. Nell’ambito di questa tematica, la letteratura politologica ha individuato un fattore cruciale nella presenza/assenza di un precedente processo di consolidamento dello Stato, evidenziando i rischi di fallimento democratico laddove i governi nazionali, sfidati da attori sub-statali di varia natura (gruppi terroristici, minoranze etniche, organizzazioni criminali) stentano a monopolizzare la forza su tutto il territorio e a garantire la stabilità e il controllo dei confini. Così come una certa attenzione hanno attirato i fattori culturali e nello specifico le condizioni di eterogeneità e divisione della comunità politica. Infine, c’è anche un ulteriore aspetto che attiene all’esportazione (magari tramite l’intervento militare) di un modello di regime politico maggiormente idoneo a favorire la stabilità e la pace democratica nelle regioni dove la democrazia non riesce a svilupparsi spontaneamente. In quest’ultimo caso, non vanno trascurati tutti quegli “effetti perversi” sovente associati a tali processi di democratizzazione esterna.
Il secondo ambito tematico attiene all’analisi empirica della democrazia a livello generale, con riferimento alla sua evoluzione, alla qualità democratica e alla crisi del modello liberaldemocratico occidentale. In particolare, il tema della crisi democratica può essere declinato in diversi modi: da un lato, la letteratura più recente si è soffermata sulla perdita di legittimità delle democrazie avanzate, individuando una serie di nessi causali ricorrenti che consentono di operare delle generalizzazioni di piccolo o medio raggio. In questo modo, ritornando su tematiche e questioni in parte affrontate nel dibattito sulla razionalità dei sistemi di governo democratici degli anni ’70, un altro aspetto cruciale, emerso in questi ultimi anni a causa dei ripetuti attentati terroristici che hanno colpito i paesi occidentali, è legato al rapporto tra democrazia e sicurezza. Tale legame può essere inteso sia in termini di percezione da parte della società civile della capacità dei governi di tutelare l’ordine pubblico e l’incolumità fisica dei propri cittadini, sia come trade-off tra libertà (individuale) e sicurezza (collettiva) e, in questo senso, si ripropone il tema dei limiti della/alla democrazia.
Il terzo tema è quello della trasformazione della democrazia e della sua sostenibilità. In primo luogo, la questione della “sostenibilità democratica” si pone a seguito delle pressioni migratorie e della ridefinizione delle comunità politiche (questione che è speculare a quella evidenziata per i sistemi in via di democratizzazione accennata prima). Sebbene idealmente e storicamente la democrazia si sia fondata sul riconoscimento dell’individuo e sulla tutela dei suoi diritti, è innegabile che tale riconoscimento sia avvenuto prevalentemente nell’ambito di comunità politiche relativamente coese e omogenee. Anche dove le comunità “autoctone” e “nazionali” si sono mostrate più aperte, come è avvenuto in Francia e Gran Bretagna per effetto dell’integrazione crescente di individui e classi sociali che provenivano dai territori coloniali emancipati, il riconoscimento dei diritti civili è stato spesso collegato all’accettazione di un determinato modello di comunità (si pensi alla cosiddetta “assimilazione” che ha caratterizzato il caso francese). Oggi, tuttavia, il nesso immediato tra diritti e “assimilazione” nella comunità nazionale non appare più così praticabile, sia a causa della dimensione che il fenomeno migratorio sta assumendo, sia a causa delle conseguenze che esso sta producendo sul piano politico in quasi tutti i paesi occidentali, come dimostra la crescita di partiti e movimenti euroscettici, xenofobi e ultranazionalisti. In secondo luogo, la “sostenibilità” consegue all’impatto della crisi economica, oramai di medio-lungo periodo (2008), sul funzionamento delle democrazie mature e, nello specifico, sulle svariate dimensioni (procedurali, di risultato e di contenuto o, se si vuole, formali e sostanziali) che contraddistinguono le democrazie rappresentative e la loro qualità.
Muovendo da questo framework, le proposte di panel relative alle tre tematiche discusse possono riguardare tanto i contributi di carattere teorico quanto le ricerche qualitative e quantitative di tipo prevalentemente empirico.
Panel 1.1 Una democrazia post-rappresentativa è possibile? (I)
Da più parti si argomenta la “fine della democrazia rappresentativa”: un ottimo esempio è costituito dal recente volume di Simon Tormey, The End of Representative Politics (Polity 2015). Nondimeno, i riferimenti bibliografici potrebbero essere molti altri, spaziando dalla normative political theory all’empirical political theory. Come ovvio, il (supposto) tramonto del formula rappresentativa non è (o non sarebbe) altro che l’esito finale di una “crisi” che ha molteplici componenti, molte delle quali riconducono al ruolo dei partiti: il calo dell’affluenza alle urne, il crollo dell’iscrizione ai partiti, la sfiducia nel ceto politico, il disinteresse dei cittadini nei confronti della vita politica, le contestazioni dell’establishment sono soltanto alcune delle criticità ben note. Dal lato dell’offerta politica sono presenti sulla scena diversi movimenti – i Piraten in Germania e in altri paesi del Nord Europa, il M5S in Italia – che promuovono forme di democrazia diretta, facendo affidamento sul contributo offerto dalle nuove tecnologie. Non vi è dubbio infatti che queste ultime abbiano giocato un ruolo decisivo nel riequilibrare l’asimmetria informativa, che precedentemente giocava a favore dei rappresentanti nei confronti dei rappresentati.
Se questo è lo stato dell’arte, albeggia allora una domanda radicale: sarebbe possibile immaginare una democrazia che non si fondi sul congegno rappresentativo? Il panel intende stimolare proposte intese a studiare la “praticabilità” di un modello democratico post-rappresentativo, guardando con favore sia a contributi di carattere teorico, che a ricerche empiriche, sia qualitative che quantitative. Sollecitiamo papers che a titolo esemplificativo (e non esaustivo) potrebbero essere relativi a:
- lo studio teorico e/o empirico di possibili forme ibride situabili in posizione mediana rispetto ai poli opposti della democrazia rappresentativa e della democrazia diretta;
- la cultura politica dei movimenti e/o partiti che asseriscono l’obsolescenza della democrazia rappresentativa, a favore di altre forme democratiche, le cui caratteristiche dovrebbero essere opportunamente illustrate;
- esperienze rilevanti – possibilmente esposte con metodo comparativo che prenda in considerazione più casi rispetto a singoli case study – di democrazia post-rappresentativa, nel novero per esempio della “democrazia deliberativa” o di altre forme analoghe di partecipazione.
Discussant: Barbara Pisciotta
Chairs: Davide Gianluca Bianchi, Francesco Raniolo
Discussants: Barbara Pisciotta
IL GOVERNO IBRIDO. VERSO UNA LEGITTIMAZIONE E UNA RAPPRESENTANZA “POST DEMOCRATICHE” IN TEMPI DI GOVERNANCE?
ANDREA LIPPI (lippi@unifi.it)
AbstractDa qualche tempo gli studiosi si sono concentrati sulla natura e la rilevanza democratica della governance, intesa come paradigma debole di rapporti tra rappresentanti e rappresentati, governanti e governati, nelle differenti esperienze sia nazionali che sovra o sub nazionali.
I tempi di governance, infatti, paiono contraddistinti da due tendenze emergenti: una rarefazione delle forme consolidate della rappresentanza e dell’accountability, da un lato, e una ibridazione progressiva delle forme della legittimazione del potere politico, dall’altro. Entrambi questi elementi sembrerebbero spingere verso modelli di relazione tra governanti e governati adesso fondati su modelli, valori e forme di validazione dell’autorità eterodossi e apparentemente laterali rispetto ai ben noti e consolidati canali e meccanismi della democrazia procedurale con le sue forme di legittimità e rappresentanza.
Come noto, alcuni di questi modelli sono parzialmente indotti dalle istituzioni, sia mediante la messa a punto di meccanismi alternativi o integrativi dei sopra citati canali, come la partecipazione o la valutazione, mentre altri paiono più spontanei, imprevedibili e affidati agli attori ed ai formati di costruzione del discorso politico. In ogni caso, ci si affaccia, o sembrerebbe che ci siano gli elementi per poter intravedere, dinanzi a modelli di costruzione dell’autorità, del suo riconoscimento e di relazione tra rappresentanti e rappresentati caratterizzati da una generale ibridazione dei rapporti tra istituzioni, economia e società dove criteri di mercato e ‘nuovi’ valori sociali, vanno mischiandosi e sovrapponendosi con ‘vecchie’ forme della democrazia. La domanda cognitiva è se questi destini siano riconducibili a modalità post democratiche o a qualcosa di altro, oppure si tratti solo di parentesi e deviazioni temporanee.
E’ comunque in questa direzione che il paper intende guardare approfondendo le tendenze emergenti e le forme vecchie e nuove che definiscono l’autorità nelle forme fluide, ambigue, sovente indefinite e mutevoli della governance. Il governo ibrido, insomma pone sfide e avanza dilemmi sulla sua presunta e potenziale identità post democratica, da verificare e da discutere. Il paper vuole perseguire questo scopo adottando un profilo ricognitivo di tipo teorico con il preciso obiettivo di fornire al lettore uno schema interpretativo delle tendenze emergenti e delle forme della legittimazione politica dell’autorità.
"La Nuit Debout: la democrazia diretta ai tempi della crisi globale"
Giuliana Sorci (giuliana.sorci81@gmail.com)
AbstractAbstract
La Nuit Debout : la democrazia diretta ai tempi della crisi globale. Con lo scoppio della crisi finanziaria del 2008 a livello globale, si è assistito ad un nuovo ciclo di proteste e mobilitazioni da parte dei movimenti sociali a livello transnazionale. Dalle primavere arabe del 2011, ad Occupy Wall Street, al movimento 15M degli Indignados, solo per citare alcuni esempi, fino al recente movimento della Nuit Debout francese, questi movimenti si sono caratterizzati, da un lato per l’opposizione alle politiche di austerity promosse dai governi sia a livello nazionale che sovranazionale, dall’altro per il rifiuto – o quanto meno per la messa in discussione- della democrazia rappresentativa come espressione delle élites al governo che sempre meno sembrano rappresentare la volontà generale del cittadini. E’ emersa quindi la necessità per questi movimenti sociali di sperimentare nuove forme di democrazia partecipativa e diretta, sempre più inclusive, che sappiano rispondere ai bisogni di partecipazione politica della cittadinanza attiva, ivi comprese le nuove forme che utilizzano Internet, il web 2.0 ed i social network come nuovi strumenti di partecipazione. In questo paper verranno presentati i primi risultati di una ricerca in corso focalizzata proprio sull’analisi del processo decisionale, e in particolar modo, del processo di votazione elaborato dal movimento della Nuit Debout a Parigi nella primavera del 2016, all’interno del più ampio movimento contro la Loi Travail del governo Hollande-Valls. Dal punto di vista metodologico si farà ricorso all’analisi dei documenti elaborati dal movimento, ad una serie d’ interviste qualitative semi - strutturate, alla social network analisys, all’osservazione partecipante delle tecniche di gestione delle assemblee e delle commissioni organizzate dal movimento della Nuit Debout.
Il sistema ottimizzante e dinamico di "democrazia elettorale". Il caso Italiano.
Matteo Caruso (caruso-matteo@hotmail.it)
AbstractDiversi partiti emergenti in Europa stanno mettendo in discussione la democrazia rappresentativa classicamente intesa: sistemi elettorali ed istituzionali prestabiliti, rigidi ed aleatori.
Esistono modelli ottimizzanti e di game theory in grado di definire "fisicamente" come debbano essere formate le istituzioni rappresentative ed il sistema elettorale, con funzioni in grado di legare il numero di parlamentari con il numero effettivo di partiti, il numero di collegi, il numero di deputati eletti a sorte ed altro ancora. Tutto questo è qui oggetto di una proposta originale, che poggia sul seguente background teorico essenziale: R. Taagepera (2007,2008,2010), J.M.Colomer (2005,2011,2017), M. Schulze (2011), M. Ainis (2017), M. Caserta et al. (2011,2012).
La logica sottostante al modello è quella dei "check and balances", mediante quante più modalità di scelta, selezione e valutazione della classe politica possibili. Nonostante ogni elettore abbia in capo lo stesso potere elettorale, ciascuno in base alla propria volontà e conoscenze può concorrere liberamente a "rifinire" i dettagli della scelta collettiva.
L'esempio concreto per l'Italia, vedrebbe una camera a numero variabile di circa 200 rappresentanti, ed una quota di questi estratti a sorte ogni dodici mesi - circa il 10 % del totale - ed aventi obbligo di segretezza. Il sistema elettorale ha quattro schede, che possono essere completate anche solo parzialmente da parte dell'elettore: 1) voto ad una lista; 2) voto alternativo “AV” per le coalizioni; 3) il voto singolo trasferibile “STV” (sia positivo che negativo) per la selezione dei candidati; 4) voto uninominale.
Lo scrutinio a lettori ottici ed un algoritmo saranno in grado d’ottimizzare le diverse preferenze espresse: si considererà in primis il voto alternativo, attribuendo alla coalizione più votata la percentuale “più favorevole” che questa ha ottenuto nelle altre tre schede elettorali; sarà lo stesso elettore a decidere se questa maggioranza dovrà essere assoluta o relativa in base a dei correttivi. Il doppio turno è così superato perché è incorporato.
Dei contributi attribuiti su base meritocratica vengono attribuiti a candidati mai stati parlamentari prima per bilanciare il meccanismo di scelta "a sorte", così che un’eventuale domanda di turn-over possa essere assorbita anche in questo modo.
Quindi il punto d’equilibrio tra governabilità e rappresentatività sarà ottimizzato, assieme ad un risparmio economico e temporale.
Panel 1.1 Una democrazia post-rappresentativa è possibile? (II)
Da più parti si argomenta la “fine della democrazia rappresentativa”: un ottimo esempio è costituito dal recente volume di Simon Tormey, The End of Representative Politics (Polity 2015). Nondimeno, i riferimenti bibliografici potrebbero essere molti altri, spaziando dalla normative political theory all’empirical political theory. Come ovvio, il (supposto) tramonto del formula rappresentativa non è (o non sarebbe) altro che l’esito finale di una “crisi” che ha molteplici componenti, molte delle quali riconducono al ruolo dei partiti: il calo dell’affluenza alle urne, il crollo dell’iscrizione ai partiti, la sfiducia nel ceto politico, il disinteresse dei cittadini nei confronti della vita politica, le contestazioni dell’establishment sono soltanto alcune delle criticità ben note. Dal lato dell’offerta politica sono presenti sulla scena diversi movimenti – i Piraten in Germania e in altri paesi del Nord Europa, il M5S in Italia – che promuovono forme di democrazia diretta, facendo affidamento sul contributo offerto dalle nuove tecnologie. Non vi è dubbio infatti che queste ultime abbiano giocato un ruolo decisivo nel riequilibrare l’asimmetria informativa, che precedentemente giocava a favore dei rappresentanti nei confronti dei rappresentati.
Se questo è lo stato dell’arte, albeggia allora una domanda radicale: sarebbe possibile immaginare una democrazia che non si fondi sul congegno rappresentativo? Il panel intende stimolare proposte intese a studiare la “praticabilità” di un modello democratico post-rappresentativo, guardando con favore sia a contributi di carattere teorico, che a ricerche empiriche, sia qualitative che quantitative. Sollecitiamo papers che a titolo esemplificativo (e non esaustivo) potrebbero essere relativi a:
- lo studio teorico e/o empirico di possibili forme ibride situabili in posizione mediana rispetto ai poli opposti della democrazia rappresentativa e della democrazia diretta;
- la cultura politica dei movimenti e/o partiti che asseriscono l’obsolescenza della democrazia rappresentativa, a favore di altre forme democratiche, le cui caratteristiche dovrebbero essere opportunamente illustrate;
- esperienze rilevanti – possibilmente esposte con metodo comparativo che prenda in considerazione più casi rispetto a singoli case study – di democrazia post-rappresentativa, nel novero per esempio della “democrazia deliberativa” o di altre forme analoghe di partecipazione.
Discussant: Barbara Pisciotta
Chairs: Davide Gianluca Bianchi, Francesco Raniolo
Discussants: Barbara Pisciotta
Riflessioni critiche sull'approccio democratico post-rappresentativo
Erasmo Silvio Storace (erasmosilviostorace@gmail.com)
AbstractA partire da Crouch 2005, sempre più si parla di post-democrazia e di post-politica, al fine di mostrare tutti i limiti stessi a cui la forma di governo democratica va incontro. In quest'ottica, si analizzerà il fenomeno della democrazia post-rappresentativa (Tormey 2015), ripensando la formula rappresentativa che, sebbene in crisi, incarna un grande traguardo delle democrazie occidentali. In questo senso, da un punto di vista storico-filosofico, la formula rappresentativa verrà interpretata quale risposta all'allargamento della base elettorale tramite la concessione del suffragio universale: un modo attraverso cui le classi medio-alte sono riuscite ad arginare l'irrompere della sovranità popolare, in cui le classi popolari hanno intravisto, per la prima volta, una reale possibilità di partecipare alla vita politica. Ma se, storicamente, la democrazia rappresentativa è stata la modalità attraverso cui la borghesia ha garantito la continuità del proprio potere, essa ha inoltre consentito che la gestione della cosa pubblica rimanesse nelle mani tecnici già addestrati allo svolgimento di tali mansioni: una democrazia post-rappresentativa, d'altro canto, si scontra col problema dell'introduzione del cittadino comune all'interno delle istituzioni, dando vita a scenari inediti e potenzialmente pericolosi. Attraverso un approccio teorico e comparativista, in cui la scienza politica dialoga con la filosofia politica, si partirà dalla la genesi della crisi della rappresentanza, per mostrare come, a partire da ciò, abbiano avuto origine nuove forme di partecipazione politica (Raniolo 2007), abili nell'ottenere consenso ma spesso incapaci di gestire il potere quando chiamati a farlo (Mello 2013 e Mello 2014); da un punto di vista empirico, si potranno evocare alcuni dei problemi a oggi irrisolti nella Roma gestita dal Movimento 5Stelle. La cosiddetta post-democrazia può dunque essere pensata come un'involuzione verso una dimensione pre-democratica, in cui l'accesso dell'uomo qualunque all'interno delle istituzioni difficilmente porta i risultati promessi in fase di acquisizione del consenso (come nel fenomeno dell'overpromising e dell'underperforming; cfr. Graefe 2013), tipico dei populismi, che fanno leva sulla fragilità e sui limiti della democrazia rappresentativa, nata per rappresentare ideologie, partiti ed élite oggi soggetti a crisi, mutamenti e dissoluzioni (tanto da far emergere, ad esempio, il problema della revoca del mandato: cfr. Bianchi 2012).
La questione democratica nell\'epoca del capitalismo finanziario globale
Laura Quaranta (laura.forty@hotmail.it)
AbstractIl concetto di democrazia,antico quanto la riflessione occidentale sulla politica stessa,non si è mai cristallizzato in un'unica definizione,ma ha trovato la sua espressione storica in diverse applicazioni,tutte tese alla ricerca di una modalità capace di dare al popolo la potestà effettiva di governare.Da Platone ad Aristotele,da Machiavelli a Tocqueville,la democrazia è un tema riformulato in ogni epoca,giunto a coincidere-dal XVII sec.-con la sovranità rappresentativa universale e con lo Stato di diritto.Oggi,la democrazia assume dei caratteri ancor più peculiari:comprende la rappresentanza delle parti sociali,l’azione dello Stato che tutela l'uguaglianza dei cittadini, ma include soprattutto l’economia di mercato.Quest'ultima si configura con quella forma specifica di capitalismo che possiamo chiamare“capitalismo finanziario globale”(o,secondo la formula di Luciano Gallino, finanzcapitalismo).Tale precisazione è essenziale in quanto l'idea, qui,non è tanto quella di affrontare la questione,ampiamente dibattuta,sul controverso rapporto tra capitalismo e democrazia,quanto quella di tentare un approccio più circoscritto ad una sua forma specifica,quella del nostro tempo,per come si manifesta in Europa,dove effettivamente si è assistito,in più occasioni,alla marginalizzazione della"volontà popolare"e dei diritti sociali in nome delle logiche dell’economia della competitività.L’economista Dani Rodrik descrive questa situazione come il“trilemma della globalizzazione”:Stato nazionale,mercato globale e democrazia rappresentativa non possono coesistere e funzionare bene insieme;solo due dei tre poli possono farlo e,in base a ciò che si sceglie di implementare,ci si muoverà in un diverso orizzonte politico.In Italia e in Europa,sembra si sia scelto di svuotare lo Stato nazionale da una serie di poteri(basti pensare ai parametri di Maastricht)e di aderire acriticamente alle regole del mercato globale,ottenendo così quella forma di“post-democrazia”teorizzata da vari intellettuali contemporanei,che consiste in un sistema nel quale il mercato decide,lo Stato per via parlamentare esegue.In questo quadro la democrazia,i suoi rituali e le sue configurazioni,formalmente esistenti,si riducono ad una funzione politica vuota poiché,in realtà,ci si limita ad amministrare ciò che è stato già deciso altrove.L'idea è quella di indagare il rapporto che si sta costituendo nell’UE tra il capitalismo finanziario globale e il processo democratico,sviluppando una riflessione critica
Spazi ibridi di partecipazione, collaborazione, governance e democrazia urbana
Elena De Nictolis (edenictolis@luiss.it)
AbstractLa letteratura sulle innovazioni democratiche e prima ancora sulla democrazia partecipativa e deliberativa ha sviluppato modelli teorici e analisi empiriche focalizzate sull’osservazione e l’analisi di istituzioni progettate per coinvolgere i cittadini all’interno del processo democratico (Smith 2009) fornendo un contributo importante alla riflessione sui modelli di democrazia post-rappresentativa. Nell’ambito della democrazia deliberativa, i mini publics sono una classe importante di innovazioni la cui classificazione presenta aspetti controversi (Sorice 2014; Goodin and Dryzek 2006). Tra gli esempi più noti i deliberative polls (Fishkin 1988) sperimentati anche a livello statale (What’s Next California) e unionale (Isernia e Fishkin 2014), istituzioni risalenti come il participatory budgeting, così diffuso da aver subito trasformazioni rilevanti rispetto alla morfologia originaria (Baiocchi 2012) e prospettive sperimentali di co-progettazione dei servizi. Le innovazioni democratiche che si diffondono a livello urbano come frutto di processi sperimentali spontanei o come il portato dell’approccio pragmatico della politica locale (Fung 2000; Barber 2013) rendono la città un laboratorio di sperimentalismo democratico (Sabel 1998) (Foster and Iaione 2016). Nel contesto urbano italiano si può osservare la fioritura, accanto ai processi partecipativi- concentrati su issues legate alla pianificazione urbana in linea con la tradizione (Font, della Porta Sintomer 2014) – e alle innovazioni democratiche digitali anche processi di governance collaborativa per i beni comuni urbani. Queste istituzioni possono definirsi spazi ibridi (Cornwall 2004) di design istituzionale o claimed spaces (Gaventa 2006) nati dall’iniziativa di movimenti sociali e inquadrati nell’ambito del richiamo al diritto alla città come reazione al ritrarsi delle istituzioni locali oppure dall’iniziativa civica in una logica di cittadinanza attiva (Moro 2013). Il paper introdurrà una panoramica di esperienze di co-governance, di design istituzionale e non, nelle città italiane inquadrate rispetto al modello normativo della smart city e rebel city (Harvey 2012) e le implicazioni democratiche che comporta. L’analisi dei diversi approcci agli spazi ibridi di partecipazione e collaborazione aventi ad oggetto i beni comuni urbani sarà inquadrata nella più ampia riflessione sulle trasformazioni che il modello di democrazia urbana (Della Porta 2005) implementato nelle città italiane sta affrontando
Panel 1.2 Le democrazie balcaniche in transizione
A distanza di più di 25 anni dalla fine dell’esperienza jugoslava e del regime comunista in Albania, i Balcani occidentali restano un’area che non ha ancora compiuto appieno la transizione democratica. Gli elementi di precarizzazione di questo processo sono molteplici.
Dopo una fase apertamente bellica, sul piano specifico delle Relazioni Internazionali, resta irrisolta la definizione dei confini di alcuni Stati (Bosnia-Erzegovina, Kosovo), vi sono il crescente peso della rivalità fra le grandi Potenze (Russia vs Stati Uniti e Unione europea) sugli orientamenti degli Stati balcanici e la sopravvivenza di irredentismi politici e culturali di alcuni Stati verso altri (problema delle minoranze serbe in Croazia, Kosovo e Bosnia e albanesi in Montenegro e Macedonia).
Si assiste anche al risorgere dei nazionalismi: sia i paesi nell’UE (Croazia) che i paesi pre-candidati (Albania, Serbia, Montenegro e Macedonia) conoscono un risveglio nazionalista sul piano culturale e politico.
Inoltre, la accresciuta quantità di flussi migratori provenienti dal sud-est del bacino mediterraneo ha prodotto una nuova frontiera europea. Di fatto i Balcani, che nel tempo hanno sostenuto a fasi alterne il ruolo di confine poroso o di mediatori tra culture, si sono trovati a dover sostenere il ruolo di “muro” nei confronti delle spinte migratorie determinate da povertà e guerre.
Sul piano interno, si assiste alla diffusione capillare delle pratiche corruttive nella pubblica amministrazione, fattore questo che ritarda gravemente la democratizzazione di quest’area. Il caso dell’Albania e della riforma della giustizia è emblematico della fatica che richiede la normalizzazione della vita della P.A.
Albania, Serbia, Montenegro e Macedonia sono paesi pre-candidati all’ingresso nell’UE, ma ancora molti nodi vanno sciolti in quella direzione. Potrà la volontà di entrare nell’UE operare una sufficiente moral suasion verso una accelerazione del processo di democratizzazione?
Per tutti questi motivi appare ancora non risolto il quadro in cui la transizione debba compiersi. Nonostante il tempo passato vi è ancora un considerevole ritardo nell’affermazione dei principi fondamentali della democrazia occidentale e non si riesce ancora a fare una previsione attendibile sui modi e sui tempi in cui questo processo troverà una propria forma di stabilizzazione.
Chairs: Giuseppe Cascione, Luciano Monzali
Discussants: Luciano Monzali
After Competitive Authoritarianism. Hybrid Regime Legacies and the Quality of Democracy in Croatia
Antonino Castaldo (antonino.castaldo@gmail.com), Alessandra Pinna (pinna@freedomhouse.org)
AbstractSince Kirchheimer cofining conditions (1965), the impact of ‘authoritarian legacies’ on successor democracies has been widely researched with reference to every type of non-democratic regime. However, almost no attention has been devoted to hybrid regimes, despite the growing relevance of this phenomenon in the last decades. Because of the lack of consensus on the defining features of hybrid regimes, this paper deals only with Levitsky and Way’s Competitive Authoritarian (CA) model, evaluating the impact of its legacies on successive democracies. In their book published in 2010, L&W show how fifteen out of thirty-five cases democratized by 2008. However, none of them was able to establish a high-quality democracy. Is there a relevant contribution of CA legacies to this outcome? What are their consequences for the quality of successor democracies (QoD)? Which factors may contribute to explain their role? In order to answer these questions, an overview of the CA model is presented, with the aim to isolate its most likely legacies. Then, four factors that may influence the strength of these legacies are introduced: durability of the old regime; its innovative capacity; type of transition; relevance of the international context. Finally, the sectors most influenced by the CA legacies are identified (elections, media, judiciary, public administration, corruption) and connected with the corresponding QoD dimensions (electoral and inter-institutional accountability, rule of law, competition and freedom). In order to investigate the influence of CA legacies on the QoD the crucial case of Croatia is analysed, which according to L&W’s model should be among the least affected by CA legacies. The process tracing analysis applied to the Croatian case demonstrates how many shortcoming that contributed to lower the QoD level in post-CA Croatia could be traced back to some of the distinctive features of the Tuđman’s regime. The survival of the CA legacies and the magnitude of their influence can be explained by the consistent innovative capacity of the former CA regime and the prevailing continuous nature of the democratic transition, which were counterbalanced and moderated by the role played by the international dimension (EU).
La transizione democratica in Albania
Ledion Lako (cifo59@yahoo.it)
AbstractIl paper si occuperà della transizione albanese dal crollo del regime comunista, originato dalla resistenza albanese contro i nazi-fascisti e dalla vittoria delle forze alleate nella seconda guerra mondiale, ad un moderno stato liberal-democratico di stampo europeo. Questa transizione è stata, all’inizio, più lenta e sofferta che negli altri paesi balcanici, per via dell’isolamento prodotto dalle politiche del regime ed ha conosciuto fasi di progresso verso la democrazia e fasi di regressione improvvisa. Al momento, sembra che il processo di innesco di un circolo virtuoso stia dando i suoi frutti e che la nuova classe dirigente albanese abbia finalmente accelerato il cammino verso l’uscita dalla transizione.
Il paper dividerà il periodo di transizione in tre diverse parti.
Nella prima parte, che considera la fase immediatamente successiva al crollo della dittatura di Enver Hoxha, farà i conti con il tentativo della vecchia classe dirigente comunista di sopravvivere alla morte del dittatore. Gli scomposti tentativi di rifondazione del sistema si scontreranno con problemi di natura politica, ad esempio la ricostruzione delle istituzioni e la produzione della carta dei diritti fondamentali, cioè della Costituzione; ma anche di natura economica, ad esempio la grave crisi economica del 1992, ma soprattutto la crisi finanziaria del 1997, la cosiddetta “crisi delle piramidi”.
La seconda parte analizzerà la fase che va dalla risoluzione della crisi finanziaria al cambio di registro politico albanese, cioè il passaggio dalla leadership del Partito Democratico a quella del Partito Socialista. L’uomo forte di questo periodo è senza alcun dubbio la figura di Sali Berisha, ex medico dell’establishment del regime, reinterpretatosi paladino della conversione al mercato ed alla occidentalizzazione albanese.
Infine la terza parte indagherà sull’ascesa del Partito Socialista, il cui personaggio più rappresentativo è Edi Rama, intellettuale di pregio, ma anche storico sindaco della capitale, Tirana. Questa fase è senz’altro caratterizzata dal tentativo di ricostruzione delle basi fondamentali della presenza dello Stato nella vita dei cittadini albanesi. Quindi il motivo portante dell’azione politica di Rama sarà la lotta alle mafie ed alla corruzione, la normalizzazione del sistema legislativo e giudiziario, ma soprattutto sarà caratterizzata dallo sforzo, apparentemente destinato al successo, dell’intero sistema per entrare a far parte dell’Unione Europea.
La democrazia montenegrina in transizione
Mina Raicevic (raicevic.mina@gmail.com)
AbstractLa democrazia montenegrina in transizione
I processi di adesione all'Unione europea e alla NATO sono le principali priorità della politica estera del Montenegro.
Il processo di adesione alla NATO è già praticamente completato e sottolinea la crescita del paese sia da un punto di vista economico che da quello della democratizzazione: una decisione, questa, che apre la porta all'adesione all'Unione europea.
A maggio 2010, il Montenegro e l'Unione europea hanno firmato l'accordo di stabilizzazione e di adesione, mentre nel dicembre 2010 il Consiglio europeo ha concesso il Montenegro lo status di candidato. I negoziati di adesione sono stati aperti nel giugno 2012. Dei 35 capitoli dell'acquis, il raggiungimento di requisiti necessari per ottenere l'accesso all'UE, finora ne sono stati raggiunti 25.
I processi di adesione influenzano in modo significativo il processo di transizione economico –commerciale e la sfera della democrazia e dei diritti umani. L'armonizzazione del contesto legislativo, insieme all'implementazione delle leggi in tutte le aree coperte dai capitoli dell’acquis, non solo contribuisce in modo sinergico al raggiungimento degli obiettivi del Montenegro (adesione all'Unione europea e alla NATO), ma crea anche un fondamento stabile per lo sviluppo delle relazioni democratiche, senza le quali è impossibile compiere significativi passi avanti.
Nonostante le tensioni politiche tra la coalizione guidata dal DPS (Demokratska partija socijalista - Partito Democratico dei Socialisti), e il blocco di opposizione, il paese ha mantenuto un alto livello di tolleranza etnica e confessionale. Le manifestazioni di protesta organizzate dall’opposizione del Narodni Front (Fronte Popolare) non sono mai degenerate in un conflitto su larga scala.
La conseguenza dell'ondata di proteste è stata la formazione di un governo di fiducia elettorale, guidato da Milo Djukanovic, che includeva i rappresentanti dei partiti di opposizione. Questo governo è rimasto in carica pochi mesi ed ha definito, in collaborazione con il Parlamento, il quadro giuridico e tecnico per lo svolgimento delle successive elezioni.
Dopo una campagna elettorale molto aggressiva e la decisione del procuratore generale Milivoje Katnic di far arrestare, lo stesso giorno delle elezioni, alcuni cittadini serbi, l’opposizione ha boicottato il Parlamento. Tuttavia, il DPS è riuscito a formare un governo di coalizione e il Parlamento ha ratificato l'accordo sulla adesione alla NATO.
Il Montenegro al bivio: la transizione e i prospetti di adesione all'UE
Luigi Cino (luigi.cino@santannapisa.it), Cristian Barbieri (c.barbieri@iai.it)
AbstractNell’ottobre 2007 il Montenegro ha firmato l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione con l’Unione Europea, per poi presentare formalmente richiesta di adesione ed essere ufficialmente riconosciuto come candidato. Il paese ha adottato unilateralmente l’euro sin dal 2002, compiendo così un grande passo nel rispetto del criterio “economico” di Copenaghen.
Sebbene il cammino di adesione verso l’Unione Europea si prospetti lungo, anche alla luce della decisione di Juncker di non procedere a nessun nuovo allargamento durante il suo mandato, il Montenegro è, tra i candidati all’adesione, il più prossimo all’Europa. Il numero di capitoli aperti è infatti di 24 su 33 totali, di cui 2 chiusi. Guardando ai dati di Freedom House, il paese ha visto un miglioramento della situazione delle libertà civili e dei diritti politici dopo i primi tre anni dalla sua indipendenza, portando così la classificazione del paese da “parzialmente libero” a libero”. Dal 2010 e fino al 2015, il paese ha continuato stabilmente ad essere libero, seppur i valori forniti da Freedom House descrivano un livello non molto alto di tutela dei diritti e delle libertà civili. Sfortunatamente, negli ultimi due anni il paese ha fatto passi indietro, venendo nuovamente classificato come parzialmente libero.
Sul piano internazionale, tra il 2016 e il 2017 il paese ha iniziato il processo di adesione alla NATO, formalizzato nello scorso 25 maggio al vertice a Bruxelles. Tale svolta, nelle politiche di Podgorica, segna un ulteriore passo di avvicinamento all’Europa.
Se l’Unione Europea deciderà di aprire le porte ai candidati nel prossimo mandato della Commissione il Montenegro sembra il più papabile. Tuttavia uno stallo nella transizione democratica appare evidente dai dati empirici.
Lo scopo del nostro paper è di monitorare quali sviluppi il paese ha conseguito per quanto riguarda il criterio "politico" di Copenaghen: presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i diritti dell'uomo, il rispetto delle minoranze e la loro tutela. Verificare le cause dello stallo del cammino democratico avvenuto nell’ultimo biennio, e discuterne gli effetti nel cammino di adesione verso l’Unione. Il paper prenderà infine in considerazione anche i recenti sviluppi politici in ambito sicurezza e difesa al fine di analizzare quanto l’accesso alla NATO possa influenzare una futura adesione all'Unione Europea.
Una transizione perenne. Il lento cammino della Serbia verso la democrazia.
Marco Siragusa (msiragusa@unior.it)
AbstractLa speranza delle potenze occidentali di avviare una veloce e indolore transizione nei Balcani dopo la morte del Maresciallo Tito dovette scontrarsi con il corto circuito creatosi tra i nazionalismi nella regione che portarono, nel giro di pochi anni, al più grande conflitto armato in Europa dalla seconda guerra mondiale. Mentre però in Croazia e Slovenia, paesi dalla vocazione mitteleuropea, la guerra non riuscì a frenare la transizione, in Serbia si assistette ad un processo lento e controverso. Alle prime elezioni libere del '91 e all'implementazione dei processi di privatizzazione si contrapponevano elementi destabilizzanti come la retorica ultranazionalista di Milošević , le sanzioni economiche imposte dalla comunità internazionale e una profonda crisi economica. La “cacciata di Milošević ” apriva le porte ad una nuova ondata di speranze e aspettative. Il fronte democratico di ispirazione europeista sembrava poter garantire un nuovo corso, recuperando il ritardo accumulato negli anni precedenti. Dopo ben 17 anni però sembra che le promesse di democratizzazione, politica ed economica, della Serbia siano ancora lontane dall'esser realmente mantenute. La presentazione, dopo aver chiarito i concetti di transizione, democratizzazione ed europeizzazione, si concentrerà su un doppio livello di analisi. A livello interno si esamineranno i fattori destabilizzanti che hanno reso la transizione serba un processo ancora non del tutto definito, come gli scarsi risultati delle privatizzazioni e dei miglioramenti economici per la popolazione, l'asfissiante livello corruttivo delle istituzioni e la ben poca libertà dei media. Il secondo livello, che influenza forse maggiormente i processi di transizione nell'area, presuppone un'analisi delle relazioni regionali e internazionali inerenti, ad esempio, alle ancora vive tensioni tra Belgrado e Pristina sul riconoscimento del Kosovo, ai motivi che stanno alla base di uno scontro a bassa intensità tra l'Ue e la Russia per l'influenza nell'area e alle rinnovate relazioni economiche internazionali tra la Serbia e gli altri attori globali (Cina, Russia, UE, USA). Si cercherà infine di ipotizzare dei possibili scenari futuri in merito al processo di democratizzazione anche alla luce della profonda crisi politica europea e delle influenze esercitate dagli altri attori in gioco.
Panel 1.3 An authoritarian resurgence? De-democratization and authoritarian resilience in the contemporary world (I)
In 1991, Larry Diamond and Marc Plattner edited a Journal of Democracy (JoD) collection announcing “The global resurgence of democracy”. Twenty-five years later, the same authors ask “Is democracy in decline?”, whereas the most recent JoD book warns that “Authoritarianism goes global”. While they cannot summarize two decades of research on regime change, these are the basic coordinates of the radical change that has recently occurred in analysts’ perceptions about the present and future of democracy and authoritarianism in the world.
This panel aims to collect papers that help us go beyond these admittedly thought-provoking titles and draw a more nuanced and detailed picture of contemporary regime trajectories. Papers are welcomed that examine one or both of the following trends:
1) De-democratization, or autocratization, that is, outright transitions from democracy to closed autocracy, but also cases of loss of democratic quality and changes towards increasing levels of authoritarianism that do not necessarily lead to the abrogation of electoral rule;
2) Authoritarian resilience, that is, all the recent transformations and developments that contemporary autocracies are going through, whose common denominator is the (apparent) strengthening of the regime, including the adoption of new legitimation strategies, the processes of learning and cooperation among non-democratic countries, and the promotion of economic growth and of social welfare.
We are particularly interested in empirical contributions that focus on the post-Cold War period, and are open to a broad range of methods, approaches, and case selection.
Chairs: Andrea Cassani, Luca Tomini
Discussants: Andrea Cassani, Luca Tomini
A third reverse wave of autocratization? Some evidence and a few preliminary conclusions on prevailing patterns
Andrea Cassani (andrea.cassani@outlook.it), Luca Tomini (ltomini@ulb.ac.be)
AbstractIn this paper, we conduct empirical analysis on contemporary autocratization. We define autocratization as a process of change towards autocracy. Specifically, we identify six regime transitions that fall within this category: from liberal democracy to electoral democracy, from liberal democracy to electoral autocracy, from liberal democracy to closed autocracy, from electoral democracy to electoral autocracy, from electoral democracy to closed autocracy, from electoral autocracy to closed autocracy. First, we compare post-Cold War trends of democratization and autocratization. To do this, we rely on three main datasets - Freedom House, Polity IV and V-Dem - and highlight how perceptions of the examined phenomenon can change depending on measurement choices. Afterwards, based on the above definition and list of possible forms that autocratization can take, we identify a global set of contemporary cases of autocratization, and classify them based on starting and ending points of the transition, meaningfulness, and magnitude of the change involved. Each case of autocratization in our dataset will be also classified according to the modality according to which the process unfolds, building on Bermeo (2016), who distinguishes between open-ended coups d’état, executive coups, promissory coups, executive aggrandizement, electoral fraud, and electoral manipulation. This analysis helps us seize the overall import of the phenomenon, map it, and explore contemporary patterns of diffusion: e.g., what regions are most affected, what forms of autocratization are most common, and whether specific forms tend to prevail in different regions. The overall message of the proposed paper is that even if an outright reverse wave of autocratization is probably not underway, it would be an even worse mistake to dismiss as unnecessary alerts the recent signals of an at least incipient trend that analysts have recorded. Therefore, rather than uncritically reiterating the same big question - has a reverse wave started? - we should be more committed to learn how and where these processes of regime change unfold.
Myanmar: democratization in slow-motion
Stefano Ruzza (stefano.ruzza@gmail.com), Giuseppe Gabusi (giuseppe.gabusi@unito.it)
AbstractMyanmar has been stage to what looks like a sudden and spectacular transition. From a condition of military autocracy and strict isolation which ran uninterruptedly since 1962 and resisted unscathed (at least apparently) to domestic and external pressure, the country began to open up in 2010, freeing political prisoners, reintegrating into the international community and holding reasonably free and fair elections. The most visible sign of what is considered a fully-fledged democratic turn is the installation, since March 2016, of a civilian government led by Aung San Suu Kyi and her National League for Democracy (NLD), long time opponents of the military junta.
But has been Myanmar’s transition really so sudden? This question is addressed by applying the frame provided by Samuel Huntington's in his "The Third Wave" (1991). Huntington included Myanmar in the third wave, but after the violent crush of the popular uprisings of 1988 and the cancellation of 1990 electoral results he labelled the case as a failed transition. As his book was published in 1991, he could not afford the luxury of seeing the following developments. This paper stretches Huntington analysis to 2016 showing how Myanmar can be considered the slowest democratizing country of the third wave and taking into account both deep-rooted and proximate factors that allowed for the change, as well as elements of autocratic resilience.
Populism and Competitive Authoritarianism in Turkey
Antonino Castaldo (antonino.castaldo@gmail.com)
AbstractThis paper aims to investigate the Turkish democratic backsliding under the AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi – Justice and Development Party) government. According to the V-DEM Electoral Democracy Index Turkey has been a stable low-quality electoral democracy during the 2000s, worsening its score since 2012 and falling below the democratic threshold in 2014. In the same year Freedom House evaluated the Freedom of the press in Turkey as “Not free” and in its latest Freedom in the World report (2017) downgraded the country score from 3,5 to 4,5, very close to the “Not free” threshold. If the international literature almost unanimously agree that a democratic backsliding is under way in Turkey, there is far less agreement about what type of regime has been established during the last decade: concepts as delegative democracy (Taş 2015), illiberal democracy (Bechev 2014), neo-fascism (Tuğal 2016), electoral authoritarianism (White and Erzog 2016; Arbatli 2014) and competitive authoritarianism (CA) (Esen and Gumuscu 2016; Özbudun 2015) has been applied. Hence, what kind of political regime has been developed by the AKP? What is the timing of regime change? Which factors are able to explain the emergence of a new political regime in Turkey? What are the consequences of the 2016 failed military coup? The preliminary results of the analysis show that a CA regime has started to emerge and consolidate in Turkey since 2010, although some of its features were present even before; causal mechanisms linked to the growing relevance of populist tendencies and the role played by the international dimension, the EU conditionality in the first place, seems to be the major factors able to explain the rise of CA in Turkey. With regard to the latest events, in the short term the 2016 failed military coup strengthened the authoritarian component of the regime through the imposition of the state of emergency, while in the medium-term a key role will be played by the consequences of the constitutional referendum on the establishment of a “super-presidentialism”, which will say a lot about the prospects for democracy in Turkey, as well as the stable or instable nature of the future Turkish regime.
Reading the crisis of democracy under the lens of Giovanni Sartori: A new research agenda beyond the Alarmist Bubble
Matteo Laruffa (mlaruffa@luiss.it)
AbstractSince the most famous writings on the topic in the Seventies, the use of the expression “crisis of democracy” has grown in a confused and improper manner both in political science and comparative politics. Many observers currently believe that democracies are in crisis, and this conviction has become the mainstream point of view both inside and outside academia. Beyond the limits of our current knowledge, and maybe because of the political pressure keeping many commentators distracted from the rules of our discipline, some recent analyses tend to overestimate the weakness of democracies and a progressive de-democratization of many western societies.
This paper poses the following question: how can political scientists substantially achieve an advancement in the quest for standards and criteria to know more and better the crisis of democracy?
In this sense, the problem is to place the challenge of the crisis of democracy into a specific conceptual context, by going back to its foundations before the distraction of the alarmist proclaim the authoritarian resurgence and the collapse of democracy.
The paper is organized as follow. First, it discusses the significance of two main fallacies in understanding the crisis of democracy. Second, it disentangles the main meanings of the expression "crisis of democracy" and proposes a refined research agenda for organizing the literature. It considers three research interests. Namely, the crisis of democracy as related to governance of democracy, participation in, and opposition to democracy. The research agenda brings us back to the concepts and uses some principles inspired by the teachings of Giovanni Sartori.
Third, the paper provides a conceptual analysis of crisis of democracy based on the guidelines proposed by Sartori.
This conceptual analysis includes an assessment of a representative group of seven definitions and selects one of them as the most promising theoretical base for explaining the phenomenon.
Finally, it offers four main guidelines for a more scientific approach to the debate on the crisis of democracy, as an inescapable priority for the advancement of political science.
Keywords: crisis of democracy, de-democratization, concept analysis
Panel 1.3 An authoritarian resurgence? De-democratization and authoritarian resilience in the contemporary world (II)
In 1991, Larry Diamond and Marc Plattner edited a Journal of Democracy (JoD) collection announcing “The global resurgence of democracy”. Twenty-five years later, the same authors ask “Is democracy in decline?”, whereas the most recent JoD book warns that “Authoritarianism goes global”. While they cannot summarize two decades of research on regime change, these are the basic coordinates of the radical change that has recently occurred in analysts’ perceptions about the present and future of democracy and authoritarianism in the world.
This panel aims to collect papers that help us go beyond these admittedly thought-provoking titles and draw a more nuanced and detailed picture of contemporary regime trajectories. Papers are welcomed that examine one or both of the following trends:
1) De-democratization, or autocratization, that is, outright transitions from democracy to closed autocracy, but also cases of loss of democratic quality and changes towards increasing levels of authoritarianism that do not necessarily lead to the abrogation of electoral rule;
2) Authoritarian resilience, that is, all the recent transformations and developments that contemporary autocracies are going through, whose common denominator is the (apparent) strengthening of the regime, including the adoption of new legitimation strategies, the processes of learning and cooperation among non-democratic countries, and the promotion of economic growth and of social welfare.
We are particularly interested in empirical contributions that focus on the post-Cold War period, and are open to a broad range of methods, approaches, and case selection.
Chairs: Andrea Cassani, Luca Tomini
Discussants: Andrea Cassani, Luca Tomini
Examining Political Elites' Resilience in Power: A Comparative Analysis of Lebanon and Tunisia
Stephanie Daher (s.daher@sssup.it)
AbstractWith the emergence of the wave of Arab uprisings, several studies have analysed the process of regime breakdown in addition to the movements’ dynamics and consequent outcomes. However, little attention was paid to the actual resilience of the “politically relevant elites” (PRE) in power despite the emergence of mass movements challenging their political authority. In this respect, Heydemann (Upgrading Authoritarianism in the Arab World: 2007: 5) speaks of an “upgrading of rule”, where Arab elites have managed political contestation by appropriating and containing civil society.
From here, the aim of the proposed article is twofold: First, to produce a mapping of the politically relevant elites per se in Lebanon and Tunisia. Second, to unravel the strategies the PRE employed in order to co-opt, neutralize and weaken such movements. This will be done by examining the case-study of the “You Stink!” movement of July 2015 in Lebanon which is still active until today in addition to the "Manich Msameh" <(I will not pardon) movement in Tunisia also active until today. Both movements constitute a direct targeting of the PRE thus threatening their survival in power.
Accordingly, the paper will be based on a qualitative approach, particularly using semi-structured in-depth interviews to be conducted in Lebanon and Tunisia both with key civil figures standing behind the movement as well as political consultants/speakers to closely understand how the politically relevant elite survive in power despite being confronted with such calls for change. Moreover, the instrumental role the movement played in terms of functional organization and agenda will also be assessed as potential opportunities to the resilience of the PRE.
Lebanon and Tunisia represent two interesting case-studies to be explored given their different underpinnings but at the same time present a similar form of PRE resilience struggling to maintain political authority and power.
Nor democratization, nor authoritarian resilience: 'Structured agency" in transitions from authoritarianism across Tunisia and Egypt
valeria resta (valeria.resta@unimi.it)
AbstractRecent processes of transition from authoritarian rule in the MENA region have led to democracy in only one case. Puzzled by both the surprise of the 2011 uprisings and the variety of results stemming from them, scholars are divided as far as the study and the interpretation of the Arab Spring is concerned. On the one hand, proponents of democratization studies pinpoint to either the lack of social and economic requisites or on actors’ ‘bad choices’. On the other hand, exponents of post-democratization studies attribute the lack of democracy in the countries involved by the uprisings to the resilience of authoritarianism. While the first order of explanations suffers from either excessive determinism (if referring to modernization theories) or excessive presentism (if referring to the paradigm of transitology), the second kind of contributions falls short in providing the causal between regime’s structures and the failure of the transitions as they actually happen in a precise moment in time.
This contribution is aimed at enlightening how previous regimes’ structures might influence the behavior of transitional actors thus affecting the development of the democratization process through a comparative study of Tunisia and Egypt. In both countries the 2010-2011 upheavals lead to the ousting of the incumbent dictators thus inaugurating a transition from authoritarian rule. In both cases founding elections were indicted to elect national parliaments entrusted with constitutive powers. Yet, Tunisia succeeded where Egypt failed, namely in political parties’ achievement of an agreed compromise. Drawing from the transitology approach, this paper aims to account for the different outcomes observed in North Africa by conceiving political parties’ strategies as resulting from the interplay between i) extant social divisions; ii) power resources and iii) ideological polarization. Interestingly, the functioning of the previous regimes account for a great of variation in both parties’ power resources and ideological polarization. In particular, different outlooks of the ‘structured conflict’ underneath the previous authoritarian rule prove to have an impact on both the percentage of seats obtained by transitional parties (thus leading to an unbalanced power distribution among the decision-makers) and their ideological polarization (thus reducing the common ground available for the constitutional bargaining).
More Re-Authoritarianization than De-Democratization: Preliminary Notes on the Frequent Journey from One Autocracy to Another
Gianni Del Panta (jofplant@gmail.com)
AbstractAn increasingly rich and polarized debate about a supposed authoritarian resurgence has been taking place over the last years. Whilst some scholars have drawn attention to evident signs of deconsolidation in well-established democracies and to a proactive international cooperation among authoritarian regimes, others have simply concluded that democratic recession is nothing more than a myth. The present article enters this theoretically crucial academic dispute by analysing an often scarcely considered phenomenon – that is, the occurrence that the breakdown of an authoritarian regime might lead to a new, even if possibly different, autocracy. As a matter of fact, many studies of regime change have been interested in investigating either democratization or the collapse of democratic rule. Although there are plenty of reasons for that, the much-more-frequent than commonly assumed journey from one autocracy to another has been almost completely overlooked. The main aim of the article is thus to provide a new data set of autocratic regime breakdowns, regardless of whether the country democratizes, between 2000 and 2016. Dealing with such a period is specifically linked to the ongoing theoretical debate about an authoritarian resurgence, supporting the view that whilst a new reverse wave is not actually on the way, the global spread of liberal democratic regimes that peaked in the 1990s has been halted. Partially, this was the product of the fact that democracies broke down more frequently since 2000 than in the 1990s. However, the non-replacement of authoritarian rule with democratic institutions and procedures has to be considered as well. In other words, the article claims that if the world is not going to be freer is also because autocracies are replaced by new autocracies. After having described the general aspects of this phenomenon, the article points out both specific regional trends and the likelihood that some authoritarian regimes will be more likely substituted by new non-democratic regimes. In conclusion, some tentative explanations for the analysed phenomenon are provided.