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Section 2. Teoria politica (Political Theory)

Chairs: Damiano Palano, Daniele Piana

Questa sezione intende sollecitare la discussione nel campo della Teoria politica, con un'ottica capace di riconoscere e valorizzare il pluralismo delle prospettive e dei metodi di indagine, oltre che di favorire il dialogo tra la scienza politica e le altre discipline che studiano i fenomeni politici. Sono dunque incoraggiate proposte di panel che puntino allo sviluppo del dibattito in tutti diversi campi e filoni in cui si articola la teoria politica contemporanea, nella convinzione che la riflessione teorica e la costruzione dei concetti costituiscano strumenti indispensabili anche in vista dell'indagine empirica.

In particolare, quest'anno sono sollecitati contributi che riflettano sul rapporto tra libertà e sicurezza nel quadro delle trasformazioni contemporanee:
  • Libertà e sicurezza sono da sempre i due principi e al contempo i due beni che l'ordine giuridico e politico prende come riferimento sia per legittimare i suoi spazi di azione, sia per rispondere alla domanda della comunità politica di un vivere civile, ordinato e capace di accomodare al suo interno modi di vivere, interessi, valori diversi. L'Unione europea alla fine del XX secolo con il Consiglio di Tampere ha preso sul serio la necessità di coniugare libertà e sicurezza in uno spazio transnazionale e ha avviato un processo di costruzione di regole, strategie, strumenti orientati a da un lato assicurare la mobilità dei cittadini e dunque la fruizione delle loro libertà fondamentali e dall'altro la sicurezza dei cittadini sia nell'UE sia negli Stati nazionali. L'Aia e Stoccolma sono state tappe in questo processo che oggi si trova a doversi confrontare con una tensione profonda ed ineludibile: quella che riguarda il governo del territorio e il controllo dell'ordine pubblico. Se a questo si aggiunge il fatto che già da tempo quella che era per decenni stata la assunzione di base del processo di integrazione ossia il fatto che gli stati sovrani membri dell'Unione europea avrebbero potuto agire da attori promotori e al contempo attuatori di uno spazio dove garanzie di libertà e sicurezza sarebbero stato egualmente affermate per ogni cittadino europeo, oggi le trasformazioni che empiricamente osserviamo all'interno degli Stati nazionali, sia in relazione al rapporto fra i poteri - chi decide in materia di libertà e sicurezza - sia in relazione alle professionalità che partecipano al processo decisionale - profili giuridici, economici, statistici - sia in relazione alla difficile interazione con i territori - quanto decentrare, quanta flessibilità inserire nell'ordinamento e nel suo funzionamento effettivo - ebbene ci si rende conto che la stessa polare, il territorio, che aveva rappresentato fino a pochi anni fa il punto di riferimento rispetto a cui legittimare, orientare, controllare, sanzionare, ossia governare, oggi è tutto da ripensare. La riflessione prevista quest'anno ha come obiettivo quello di ripensare dunque le categorie con cui si guarda sia in chiave giuridica sia in chiave istituzionale e funzionale a libertà e sicurezza partendo proprio dalla mise en cause del territorio. Lo fa avvalendosi non solo a partire dalla analisi delle trasformazioni delle democrazie europee ma anche combinando le metodologie giuridiche con anche da quella delle politiche pubbliche che hanno particolare rilievo per la sovranità.
 

Panel 2.1 La rappresentanza politica nella “democrazia del pubblico”: problemi, analisi, teorie (I)


Non è scontato che l’elezione debba essere l’unica possibile soluzione per designare dei rappresentanti politici: ad esempio, questi ultimi potrebbero essere identificati per sorteggio oppure per rotazione, come ci insegnano la democrazia ateniese e il repubblicanesimo dell’età comunale. Il fatto di optare per l’elezione ha conferito alla democrazia moderna un carattere “aristocratico” che, di fatto, è entrato a far parte del suo patrimonio genetico: non a caso, il sostantivo élite ha in sé la stessa etimologia dell’aggettivo “eletto”, che propriamente non significa il beneficiario del voto – come modernamente lo intendiamo – ma un soggetto dotato di qualità superiori, secondo una terminologia che, peraltro, nel mondo protestante di culto calvinista assume precisi significati teologici. In questa chiave, non sarebbe arbitrario sostenere che sia proprio l’elettività, con il suo inevitabile portato elitario (il bisticcio di parole è inevitabile), a tracciare la linea di continuità che unisce le società d’Antico regime, in cui nasce il parlamentarismo moderno all’interno di un contesto tutt’altro che liberale e democratico, e le moderne democrazie rappresentative che fondano i loro connotati popolari proprio sulla rappresentanza (Palano 2013). Ed è proprio questa caratteristica a entrare maggiormente in crisi nell’epoca presente. Dal punto di vista teorico, ciò che appare con chiarezza è l’intendimento (consapevole e talvolta inconsapevole) di mettere in discussione alcuni elementi portanti dell’impianto classico della rappresentanza, che di fatto resiste incontrastato dalla Rivoluzione francese, se non addirittura dal Seicento inglese.
A questo proposito Bernard Manin (1996) identifica tre stagioni della rappresentanza politica nell’epoca moderna: il “parlamentarismo”, la “democrazia dei partiti”, la “democrazia del pubblico”. Il primo paradigma è quello ottocentesco, dove la rappresentanza liberale ed elitista è caratteristica di società ancora attraversate da grandissime diseguaglianze, al vertice delle quali vi erano i notabili che sedevano in parlamento. Il principio del mandato libero – o, se si preferisce, del divieto di mandato imperativo – che li svincolava dal dovere di rendere conto agli elettori del proprio operato, era funzionale al ruolo politico che questi ricoprivano: come dimostrano le parole di Burke, la democrazia era allora una mera finzione (Miglio 2011). Di contro, veniva alla luce un particolare importante: l’esistenza di rigide disposizioni a cui i parlamentari fossero stati vincolati dagli elettori avrebbe reso impraticabile l’attività decisionale e deliberativa dell’assemblea, perché non sarebbe stata tecnicamente possibile la mediazione fra posizioni diverse.
Quella che Manin chiama la “democrazia dei partiti” sorge con il suffragio universale, dopo la Grande guerra, quando nascono i primi partiti di massa in Europa. L’orizzonte della responsabilità dell’eletto prende così a spostarsi dagli elettori al partito e alla sua ideologia, che trovava una giustificazione nel contesto della lotta di classe dell’industrialismo maturo. La “democrazia del pubblico” (democracy of the public) è quella dei giorni nostri, i cui connotati teorici sono ancora piuttosto imprecisi, per quanto si percepisca la sua distanza (crescente) dalle altre forme che l’hanno preceduta. In essa ha un ruolo determinante la personalizzazione del potere, che tende a enfatizzare l’elemento fiduciario e, per quanto possibile, il rapporto diretto con il rappresentante. Ovviamente sono stati i media il principale vettore dell’irruzione della personalità nella vita politica, insieme al largo uso dei sondaggi; in altre parole, la mediatizzazione della politica rischia di mettere in crisi i sistemi di mediazione su cui si è organizzata la politica moderna a partire dalle rivoluzioni “liberali”. L’ingrediente che accompagna la democracy of the public di cui parla Manin è un clima anti-elitistica, incline al rischio demagogico e plebiscitario.
Di contro, negli ultimi anni si sono imposte all’attenzione degli studiosi diverse critiche radicali delle procedure elettorali-rappresentative (Crouch 2004; Rosanvallon 2006), con molteplici accenti rivolti comunque ad auspicare un maggior “monitoraggio” (Keane 2009) dei cittadini nei confronti della democrazia istituzionale, a fronte delle inadempienze dei partiti, soprattutto nella loro capacità d’agire come agenzie di formazione della classe politica. A questo riguardo è interessante osservare come la teorizzazione intorno ai modelli di partito (Raniolo 2013) ricalchi da vicino la terminologia usata da Manin in relazione ai primi due passaggi – al parlamentarismo non è arbitrario far corrispondere il partito d’élite, e alla democrazia dei partiti il partito di massa – mentre per quanto riguarda il presente l’analisi si faccia più complessa e multiforme. I “partiti elettorali” degli ultimi decenni hanno assunto la forma dapprima del catch-all party teorizzata alla fine degli anni Sessanta (Kirchheimer 1966), e poi il profilo del cartel party proposto negli anni Novanta del Novecento (Katz, Mair 1995): ciò che è comune a questi modelli è il progressivo indebolimento del radicamento sociale e, in ultima analisi, la diminuita capacità di rappresentanza della società civile. Si è realizzata così, in modo radicale, l’originaria intuizione di Roberto Michels (1976) in ordine alla prevalenza della vocazione auto-conservativa delle organizzazioni partitiche rispetto alla missione politica.
Tenendo conto di queste premesse, il panel intende accogliere dei contributi in grado di problematizzare e discutere criticamente (e auspicabilmente in modo originale) i problemi della rappresentanza nei sistemi politici contemporanei. Verranno valutati papers con una vocazione teorica e, nondimeno, analisi sui partiti, sia in ordine alle loro trasformazioni che alle caratteristiche culturali dei movimenti populismi orientati a delegittimare la rappresentanza in quanto tale.

Discussants: Valeria Ottonelli (Università di Genova) e Damiano Palano (Università Cattolica)


Chairs: Davide Gianluca Bianchi, Francesco Raniolo

Assetto postdemocratico, prassi controdemocratiche e valore normativo della rappresentanza
FRANCO DI SCIULLO (fdisciullo@unime.it)
AbstractSecondo Sebastiano Maffettone, a partire dall’ultimo scorcio del Novecento la teoria politica contemporanea, in primo luogo con John Rawls e Jürgen Haber-mas, si caratterizza per il tentativo di offrire solide basi normative alla democrazia liberale. Tuttavia già al volgere del millennio Chantal Mouffe denunciava il carat-tere irrealistico di questo tentativo teorico — e dunque la fragilità di queste basi normative —, consistendo l’uno e le altre nell’offrire soluzioni di natura morale al problema, prettamente politico, costituito dal paradosso che deriva dallo sforzo di esorcizzare la tensione soggiacente al rapporto tra sovranità popolare e quadro va-loriale staticamente sancito dalle costituzioni liberali. Nel primo decennio del no-stro secolo, è vero, Seyla Benhabib rilevava che la prospettiva assunta da Mouffe fa perdere di vista il fatto che quanto appare paradossale è al contempo ciò che at-tribuisce valore normativo alla legittimità democratica. È però innegabile che la questione della validità normativa della democrazia rappresentativa da almeno un decennio appaia affievolita e sembri perdere di rilevanza a fronte dell’emergere di fenomeni che Colin Crouch e Pierre Rosanvallon hanno rispettivamente definito «postdemocratici» e «controdemocratici». Poiché la tensione tra dinamismo della sovranità popolare e stabilità del quadro costituzionale dovrebbe trovare espressione nella rappresentanza politica, il punto focale della discussione, a un secolo da Max Weber, Robert Michels e Hans Kelsen e a oltre cinquant’anni da Anthony Downs e Otto Kirchheimer, è ancora il partito politico. Le trasformazioni dei partiti e l’indebolimento del nesso di rappre-sentanza appaiono sostanziali, tanto da far parlare Carlo Galli di una democrazia «a disagio», da far sottolineare a Damiano Palano una persistente sospettosità del «pubblico», da far sorgere ad Alfio Mastropaolo il dubbio che la democrazia sia «una causa persa» e far lanciare a Étienne Balibar la parola d’ordine di «democra-tizzare la democrazia», lottando contro il fenomeno della «de-democratizzazione» studiato da Charles Tilly. Secondo Crouch, dopo la trasformazione della forma-partito tipica della democrazia novecentesca, le scelte pubbliche sono gestite in privato, sotto forma di mediazioni fra la classe politica e le élites economiche, mentre nei cittadini crescono il disappunto e la disillusione per il rapporto con la rappresentanza politica. Se a taluni sembra doveroso seguire per correttezza l’indicazione di Bernard Manin, sostituendo l’espressione di «democrazia rappre-sentativa», ormai fuorviante nella realtà attuale, con quelle di «sistema rappresen-tativo» e «governo rappresentativo», Rosanvallon ritiene piuttosto che si debba prendere atto che l’attività democratica e la rappresentanza si dispiegano oltre l’orizzonte strettamente istituzionale e si manifestano anche nei poteri di sorve-glianza, giudizio e interdizione esercitati da frange non secondarie della società ci-vile e dell’opinione pubblica. Manuel Castells, da parte sua, ha richiamato a più ri-prese l’attenzione sul ruolo dei sistemi e dei «nodi» di comunicazione nella società della rete e ha condotto studi estremamente influenti sul rapporto tra ambito istitu-zionale e produzione di significati nella sfera dei media. Né a Rosanvallon né a Castells sfugge che la fisiologia di un potere popolare di giudizio e interdizione, se vissuto in ambito esclusivamente extraistituzionale nelle attuali condizioni post-democratiche, appare particolarmente incline a trasformarsi in patologia, e tanto Gaetano Silvestri quanto Mario Dogliani hanno richiamato l’attenzione sull’esigenza di riconoscere il dovuto spessore normativo ai valori fondamentali della rappresentanza democratica. Ma è ancora possibile il richiamo a una ragione pubblica democratica, o bisogna concludere, con Castells, che l’ideale sostenuto dai teorici della democrazia normativa è irrimediabilmente in contrasto con le ten-denze culturali generali del nostro tempo? Che spazio c’è per un’adesione coscien-te e convinta ai valori costituzionali fondamentali — valori che per Rawls e Ha-bermas devono essere universalmente accettati a livello sociale, riconosciuti e sen-titi da tutti i cittadini come non negoziabili — quando la procedura discorsiva pubblica destinata a portare a un voto consapevole sulla revisione costituzionale di un intero sistema di rappresentanza viene indirizzata e condotta sul piano di feno-meni esterni quali i costi eccessivi della politica, i benefici economici della velo-cizzazione nei processi decisionali e il gradimento pubblico per recenti scelte poli-tico-sociali della compagine governativa pro tempore? Si può ancora sperare in una rappresentanza che sintetizzi aspetti pragmatici e valoriali, o si deve temere di essere giunti a una condizione retta esclusivamente sullo spirito empirico, in cui tanto i cittadini quanto i loro rappresentanti non conoscono ragioni sufficienti per sentirsi vincolati agli aspetti valoriali dell’ordinamento democratico?

Uno spazio sempre più ristretto? Le élite e l’intermediazione nei modelli di democrazia rappresentativa
Antonio Campati (antonio.campati@unicatt.it)
AbstractIl ruolo delle élite all’interno delle democrazie contemporanee è un aspetto costantemente al vaglio degli studiosi. Lo è, innanzitutto, perché la presenza di una minoranza che governa è insopprimibile anche all’interno di modelli organizzativi che auspicano formule dirette di partecipazione pubblica e, in secondo luogo, perché lo studio delle élite è imprescindibile per tracciare una mappa organica delle trasformazioni della rappresentanza politica. A ciò si aggiunga il fatto che la versione del governo rappresentativo che sembrerebbe più consona a descrivere gli ultimi sviluppi delle democrazie ha il suo elemento caratterizzante nell’«immediatezza», ossia nella tendenza a basare l’attività del governo su modalità di intervento dirette (specialmente da parte del primo ministro), quindi autonome rispetto ai rituali di mediazione politica (e non solo) tipicamente appannaggio dei corpi intermedi e delle élite. La presente proposta si pone dunque l’obiettivo di fissare una ricognizione dei vari modelli di democrazia rappresentativa proposti dalla teoria e dalla scienza politica con una particolare attenzione ai tipi di mediazione che essi presuppongono fra le élite e fra queste e gli altri soggetti politici. L’intento è quello di definire con chiarezza le dinamiche che determinano tali differenti forme di mediazione per comprendere qual è la loro effettiva collocazione all’interno dell’ampia cornice che la teoria democratica ha costruito attorno ad esse. Per farlo è dunque necessario focalizzarsi sulle élite, analizzandole dentro una cornice generale per cogliere quanto ‘spazio’ i diversi modelli di democrazia riservano loro e quindi spiegare i presupposti che inducono a prevederne un’estensione ampia o ristretta. A partire da una simile rilevazione, sarà più agevole cogliere non pochi mutamenti del sistema rappresentativo laddove spesso è proprio la distanza che separa i rappresentanti e i rappresentati a descrivere la conformazione effettiva e lo stato di salute delle democrazie.

Un istituto di democrazia diretta. Recall: la revoca degli eletti senza mandato imperativo
Davide Gianluca Bianchi (davidegianluca.bianchi@gmail.com)
AbstractIl Recall è la possibilità, riconosciuta ai cittadini, di revocare gli eletti a cariche pubbliche prima della scadenza naturale del mandato, attraverso il ricorso a metodi di democrazia diretta. L’istituto tocca da vicino, di conseguenza, la teoria della rappresentanza politica. A questo proposito Giovanni Sartori scrive che «rappresentare sta per dire: presentare di nuovo e, per estensione, rendere presente qualcosa o qualcuno che non è presente. Da qui la teoria delle rappresentanza si svolge in tre direzioni diverse, a seconda che venga associata: a) con l’idea di mandato, o di delega; b) che l’idea di rappresentatività, vale a dire di somiglianza e similarità; c) con l’idea di responsività» (G. SARTORI, Elementi di teoria politica, Mulino, Bologna 1987, p. 285). Per cui, prosegue Sartori, si potrebbe affermare che la componente “normativa” della rappresentanza politica si situi all’intersezione dei primi due elementi – quello giuridico e quello sociologico – mentre la sua dimensione “empirica” graviti intorno al concetto di accountability. Il rappresentante deve rendere conto politicamente a chi lo ha designato, ma ciò non significa che sia il latore passivo della sua volontà: viceversa, è proprio la distanza da questa impostazione – che coincide con la rappresentanza civilistica – che identifica lo specifico del rappresentante politico. Quest’ultimo non è un mero delegato, ma un mandatario, ed è tale in ragione del fatto che burkianamente gli si riconoscono (almeno in astratto) delle capacità superiori rispetto alla platea dei rappresentati. Se questa è la teoria della rappresentanza politica moderna, una delle conseguenze più immediate è data dal fatto che ne risulti escluso il mandato imperativo, e la conseguente possibilità di revoca dell’eletto che trovava applicazione nelle società d’Antico regime, come sanzione nei casi in cui non veniva data attuazione alle “istruzioni” che i rappresentanti ricevevano dai rappresentati. Di norma, infatti, si presuppone che la revoca sia possibile là dove vige il mandato imperativo, com’era nei parlamenti del Socialismo reale sulla scorta di specifiche dottrine giuridiche e politiche. La caratteristica precipua del Recall anglosassone consiste nel porsi a latere rispetto a questa associazione fra mandato imperativo e revoca: in altre parole, nel caso del Recall vi è libero mandato, secondo gli stilemi liberaldemocratici, e nel contempo non si esclude la possibilità della revoca. A parte qualche significativa eccezione – il caso più noto è quello del presidente venezuelano Hugo Chávez che nel 2004 è stato oggetto di un tentativo di revoca, che tuttavia non ha avuto successo – non è un caso, infatti, che il Recall abbia avuto una storia prevalentemente statunitense, almeno fino a oggi. Nato in California all’inizio del Novecento, si è diffuso poi in numerosi stati dell’Unione, senza mai colpire particolarmente l’attenzione degli studiosi. Recentemente ha conosciuto un notevole rilancio d’interesse dopo la prima elezione di Arnold Schwarzenegger nel 2003, avvenuta attraverso il Recall del governatore in carica. Al punto che i Liberademocratici britannici l’hanno inserito nel manifesto per le general election del 2010, e poi hanno preteso che fosse parte del Coalition Agreement siglato con i Tory per il governo di coalizione in office a Downing Street sino al maggio 2015. Sebbene il Bill in questione non sia mai divenuto Act, vale a dire una legge vigente, in questo modo, la revoca degli eletti è entrata nel calendario dei lavori del parlamento che, originariamente, ha fornito le coordinate teoriche alla rappresentanza politica occidentale. Nel paper che si propone si partirà dai contenuti del Recall bill discusso alla House of Commons britannica durante la legislatura 2010-2015, per poi risalire alle origini americane dell’istituto e ai tratti essenziali del case study più noto (la revoca del Governatore californiano nel 2003). L’obiettivo è quello di inquadrare teoricamente il Recall nell’ambito della riflessione politologica sulla democrazia rappresentativa dei giorni nostri, e le sue relazioni con gli istituti di democrazia diretta a cui appartiene il Recall.

 

Panel 2.1 La rappresentanza politica nella “democrazia del pubblico”: problemi, analisi, teorie (II)


Non è scontato che l’elezione debba essere l’unica possibile soluzione per designare dei rappresentanti politici: ad esempio, questi ultimi potrebbero essere identificati per sorteggio oppure per rotazione, come ci insegnano la democrazia ateniese e il repubblicanesimo dell’età comunale. Il fatto di optare per l’elezione ha conferito alla democrazia moderna un carattere “aristocratico” che, di fatto, è entrato a far parte del suo patrimonio genetico: non a caso, il sostantivo élite ha in sé la stessa etimologia dell’aggettivo “eletto”, che propriamente non significa il beneficiario del voto – come modernamente lo intendiamo – ma un soggetto dotato di qualità superiori, secondo una terminologia che, peraltro, nel mondo protestante di culto calvinista assume precisi significati teologici. In questa chiave, non sarebbe arbitrario sostenere che sia proprio l’elettività, con il suo inevitabile portato elitario (il bisticcio di parole è inevitabile), a tracciare la linea di continuità che unisce le società d’Antico regime, in cui nasce il parlamentarismo moderno all’interno di un contesto tutt’altro che liberale e democratico, e le moderne democrazie rappresentative che fondano i loro connotati popolari proprio sulla rappresentanza (Palano 2013). Ed è proprio questa caratteristica a entrare maggiormente in crisi nell’epoca presente. Dal punto di vista teorico, ciò che appare con chiarezza è l’intendimento (consapevole e talvolta inconsapevole) di mettere in discussione alcuni elementi portanti dell’impianto classico della rappresentanza, che di fatto resiste incontrastato dalla Rivoluzione francese, se non addirittura dal Seicento inglese.
A questo proposito Bernard Manin (1996) identifica tre stagioni della rappresentanza politica nell’epoca moderna: il “parlamentarismo”, la “democrazia dei partiti”, la “democrazia del pubblico”. Il primo paradigma è quello ottocentesco, dove la rappresentanza liberale ed elitista è caratteristica di società ancora attraversate da grandissime diseguaglianze, al vertice delle quali vi erano i notabili che sedevano in parlamento. Il principio del mandato libero – o, se si preferisce, del divieto di mandato imperativo – che li svincolava dal dovere di rendere conto agli elettori del proprio operato, era funzionale al ruolo politico che questi ricoprivano: come dimostrano le parole di Burke, la democrazia era allora una mera finzione (Miglio 2011). Di contro, veniva alla luce un particolare importante: l’esistenza di rigide disposizioni a cui i parlamentari fossero stati vincolati dagli elettori avrebbe reso impraticabile l’attività decisionale e deliberativa dell’assemblea, perché non sarebbe stata tecnicamente possibile la mediazione fra posizioni diverse.
Quella che Manin chiama la “democrazia dei partiti” sorge con il suffragio universale, dopo la Grande guerra, quando nascono i primi partiti di massa in Europa. L’orizzonte della responsabilità dell’eletto prende così a spostarsi dagli elettori al partito e alla sua ideologia, che trovava una giustificazione nel contesto della lotta di classe dell’industrialismo maturo. La “democrazia del pubblico” (democracy of the public) è quella dei giorni nostri, i cui connotati teorici sono ancora piuttosto imprecisi, per quanto si percepisca la sua distanza (crescente) dalle altre forme che l’hanno preceduta. In essa ha un ruolo determinante la personalizzazione del potere, che tende a enfatizzare l’elemento fiduciario e, per quanto possibile, il rapporto diretto con il rappresentante. Ovviamente sono stati i media il principale vettore dell’irruzione della personalità nella vita politica, insieme al largo uso dei sondaggi; in altre parole, la mediatizzazione della politica rischia di mettere in crisi i sistemi di mediazione su cui si è organizzata la politica moderna a partire dalle rivoluzioni “liberali”. L’ingrediente che accompagna la democracy of the public di cui parla Manin è un clima anti-elitistica, incline al rischio demagogico e plebiscitario.
Di contro, negli ultimi anni si sono imposte all’attenzione degli studiosi diverse critiche radicali delle procedure elettorali-rappresentative (Crouch 2004; Rosanvallon 2006), con molteplici accenti rivolti comunque ad auspicare un maggior “monitoraggio” (Keane 2009) dei cittadini nei confronti della democrazia istituzionale, a fronte delle inadempienze dei partiti, soprattutto nella loro capacità d’agire come agenzie di formazione della classe politica. A questo riguardo è interessante osservare come la teorizzazione intorno ai modelli di partito (Raniolo 2013) ricalchi da vicino la terminologia usata da Manin in relazione ai primi due passaggi – al parlamentarismo non è arbitrario far corrispondere il partito d’élite, e alla democrazia dei partiti il partito di massa – mentre per quanto riguarda il presente l’analisi si faccia più complessa e multiforme. I “partiti elettorali” degli ultimi decenni hanno assunto la forma dapprima del catch-all party teorizzata alla fine degli anni Sessanta (Kirchheimer 1966), e poi il profilo del cartel party proposto negli anni Novanta del Novecento (Katz, Mair 1995): ciò che è comune a questi modelli è il progressivo indebolimento del radicamento sociale e, in ultima analisi, la diminuita capacità di rappresentanza della società civile. Si è realizzata così, in modo radicale, l’originaria intuizione di Roberto Michels (1976) in ordine alla prevalenza della vocazione auto-conservativa delle organizzazioni partitiche rispetto alla missione politica.
Tenendo conto di queste premesse, il panel intende accogliere dei contributi in grado di problematizzare e discutere criticamente (e auspicabilmente in modo originale) i problemi della rappresentanza nei sistemi politici contemporanei. Verranno valutati papers con una vocazione teorica e, nondimeno, analisi sui partiti, sia in ordine alle loro trasformazioni che alle caratteristiche culturali dei movimenti populismi orientati a delegittimare la rappresentanza in quanto tale.

Discussants: Valeria Ottonelli (Università di Genova) e Damiano Palano (Università Cattolica)


Chairs: Davide Gianluca Bianchi, Francesco Raniolo

Discussants: Damiano Palano

I partiti e lo Stato. Evidenze dal caso italiano (1970-2014)
eugenio pizzimenti (eugenio.pizzimenti@unipi.it), enrico calossi (enrico.calossi@eui.eu)
AbstractCosa intendiamo quando parliamo di partiti politici? Individuare con precisione cosa siano, oggi, i partiti politici e quali siano le loro caratteristiche e funzioni peculiari non è un'impresa facile. Né, del resto, si può dire lo sia mai stata. Il numero di studiosi che, negli anni, hanno cercato di offrire risposte esaustive a questa domanda è consistente; così come sovrabbondanti sono le definizioni proposte e le generalizzazioni formulate. A partire dalla definizione “classica” di Weber (1922, trad. It. 1974), un generale accordo emerge nel definire i partiti quali associazioni volontarie di individui. Tuttavia, mentre alcuni autori hanno messo in evidenza come la ragion d'essere dei partiti consista nel partecipare alle competizioni elettorali al fine di vincere i seggi necessari per poter accedere al governo di un Paese, altri hanno preferito sottolineare aspetti differenti della natura e delle funzioni svolte dai partiti. I partiti sono stati inquadrati quali mezzi per la creazione di identità stabili e condivise (Pizzorno 1991); la semplificazione delle domande provenienti dalla società civile, attraverso la strutturazione del voto (Almond, Powell 1978); la selezione e il reclutamento della classe dirigente (Ranney 1981; Norris 2006); l'intermediazione tra le istanze dei cittadini e quelle dello Stato (Downs 1957; Sartori 1976); la formulazione e l'approvazione delle politiche pubbliche (Rose 1984). In anni recenti, l'approccio organizzativo allo studio dei partiti – una tradizione di ricerca avviata dai pionieristici lavori di Ostrogorski (1903) e Michels (1911, trad. It. 1966) e sviluppatasi grazie ai contributi, tra gli altri, di Duverger (1951), Kirchheimer (1966), Katz e Mair (1995) – ha conosciuto un rinnovato interesse da parte della comunità scientifica. La letteratura degli ultimi due decenni è stata caratterizzata dalla prevalenza di due tendenze. Da un lato, numerosi studi si sono focalizzati sulle strutture organizzative di singoli partiti, alla ricerca di (presunti) nuovi modelli analitici; dall'altro, in molti si sono cimentati in analisi empirico-descrittive di singole caratteristiche organizzative dei partiti1. Tutti questi contributi sono estremamente preziosi, in quanto forniscono una rappresentazione aggiornata dello “stato dell'arte” e della “salute” dei partiti politici. Tuttavia, a quarant'anni di distanza dall'osservazione di Giovanni Sartori (1976) – che evidenziava come il divario tra le conoscenze empiriche e una definita concettualizzazione teorica sui partiti politici fosse molto ampio – l'assenza di una compiuta “teoria dei partiti” e l'estrema parcellizzazione degli studi sui partiti rappresentano nodi irrisolti della scienza politica. A partire da questa constatazione è a nostro avviso opportuno individuare un minimo comune denominatore in grado di aggregare la frammentata galassia delle analisi dedicate ai partiti politici (Katz, Krotty 2006). A tal fine, raccogliendo il suggerimento di Panebianco (1982), è possibile ricorrere, in prima istanza, alla seguente definizione minima di partito politico: i partiti politici sono, in primo luogo, organizzazioni. Si tratta, tuttavia, di una definizione non soddisfacente. Se, infatti, il classico partito di integrazione di massa era una forma organizzativa volontaristica, privata, sorta e radicata all'interno di uno specifico settore della società civile, molti dei partiti contemporanei non nascono come forme organizzate di specifici segmenti societari. Per capire genesi e (eventuale) sviluppo organizzativo dei partiti contemporanei non appare quindi sufficiente (né, spesso, necessario) ricorrere all'analisi dei loro rapporti con la società civile. Anche oggi i partiti politici sono organizzazioni, nella maggior parte dei casi private (Piccio, Di Mascio 2015): ma, a differenza del passato, sono organizzazioni che nascono e si sviluppano attraverso la penetrazione dello Stato, delle istituzioni pubbliche, di cui diventano specifici agenti (Katz, Mair 1995). Non più interessati a dominare specifici settori della società civile, i partiti sarebbero oggi orientati al controllo delle istituzioni pubbliche: si sarebbe cioè invertito il rapporto tra predominio e adattamento tra partiti e ambiente ipotizzato da Panebianco (1982), per cui i partiti sarebbero predominanti rispetto alla loro classe gardée ma adattabili all'interno della arene istituzionali. I moderni partiti statalizzati non soltanto non avrebbero più interesse a delimitare con precisione i confini del proprio “territorio di caccia”, ma non sarebbero nemmeno propensi a ingaggiare una effettiva competizione inter-partitica per il dominio delle istituzioni: piuttosto, essi ricorrerebbero a strategie di tipo collusivo per evitare di essere esclusi dal cartello, perdendo il connesso accesso alle risorse ambientali. In questa prospettiva, il controllo delle risorse pubbliche – specie di quelle materiali messe a disposizione dallo Stato, sotto forma del finanziamento della politica – è cruciale ai fini della sopravvivenza organizzativa dei partiti: in cambio, i partiti garantiscono la stabilizzazione e il mantenimento delle relazioni che prendono corpo all'interno della comunità, attraverso la loro funzione di agenti dello Stato (Katz 2006). Ciò premesso è possibile adottare la seguente definizione: i partiti politici rappresentano oggi le principali organizzazioni politiche private deputate alla riproduzione delle istituzioni politiche: attraverso il controllo del governo e delle istituzioni della rappresentanza, dalle quali traggono le risorse necessarie alla loro sopravvivenza, i partiti contribuiscono a mantenere e a rinnovare il patto fondativo alla base della comunità, attraverso la produzione di beni pubblici sotto forma di decisioni collettive. Questa prospettiva analitica non nega che lo sviluppo organizzativo dei partiti sia stato legato a doppio filo all'evoluzione dei rapporti con la società civile, quanto meno fino agli anni Settanta del Novecento; e neppure che i partiti contemporanei siano attori completamente avulsi dalle dinamiche societarie. Ma considerato che la tendenza alla penetrazione dello Stato è in atto ormai da poco meno di mezzo secolo nelle democrazie consolidate (e può essere osservata anche nei Paesi di più recente democratizzazione) e non pare al momento destinata a mutare traiettorie, la formulazione di una teoria istituzionale dei partiti appare un passaggio non ulteriormente procrastinabile. A tale scopo può essere utile ricorrere alla teoria delle organizzazioni – un variegato e consolidato corpo di studi, soprattutto di derivazione sociologica ed economica – quale principale disciplina di riferimento. Ad eccezione del fondamentale contributo di Panebianco (1982), rimasto purtroppo isolato, i rapporti tra studi sui partiti e teoria delle organizzazioni non sono mai stati fruttuosi. A differenza di Panebianco – interessato allo studio della dimensione del potere organizzativo – la nostra analisi si concentra soprattutto sui rapporti tra organizzazioni e ambiente, allo scopo di individuare similarità e divergenze nello sviluppo organizzativo di attori operanti all'interno del medesimo contesto. Il presente lavoro di ricerca è finalizzato allo studio dei processi di costruzione, consolidamento, istituzionalizzazione e mutamento organizzativo delle organizzazioni di partito, in Italia, a partire dagli anni Settanta del Novecento ai giorni nostri. Tali mutamenti saranno analizzati in relazione all'evoluzione del sistema di interazioni tra i partiti e le istituzioni politiche. A tale scopo sarà privilegiato un approccio basato sul neoistituzionalismo di matrice sociologica.L'obiettivo è impiegare proficuamente strumenti interpretativi che possano aiutare a sviluppare, in modo coerente e articolato, schemi interpretativi multi-causali dei processi di costruzione e mutamento organizzativo dei partiti e dei rapporti tra partiti e istituzioni politiche.

A GROWING IMPACT OF NEW PARTIES: MYTH OR REALITY? PARTY SYSTEM INNOVATION IN WESTERN EUROPE AFTER 1945
Vincenzo Emanuele (vincenzoemanuele@hotmail.it), Alessandro Chiaramonte (alessandro.chiaramonte@unifi.it)
AbstractDespite the large body of literature on the emergence and success of new political parties in Western Europe, few, if any, attention has been paid to investigate new parties from a systemic perspective, therefore exploring their potential effects on party systems. This article focuses on Party System Innovation (PSInn), defined as the aggregate level of ‘newness’ recorded in a party system at a given election. After having reviewed the extant literature on the topic, the article discusses what a new party is and provides a new index to measure PSInn. The article analyses the evolution of PSInn across 324 elections held in 19 Western European countries from 1945 to 2015 and its cumulative effects over time. Although in most countries the party landscape today is still very similar to the one appearing after WWII, data offers clear evidence of a sharp increase of innovation in the last few years.

The rise of anti-party parties: new political organisations or inspiration for new political strategies?
Andrea de Pretis (adepetris@luiss.it)
AbstractThe rise of radical and populists parties from the second half of the 1990s onwards has been carefully analyzed by many eminent experts of the field, including Stefano Bartolini, Piero Ignazi, Cas Mudde, Pippa Norris, Paul Taggart and Nadia Urbinati: scholars who started a line of study which is now followed by lawyers and political scientists all around the world, demonstrating that the spread of radicalized populist parties has become a global phenomenon. Although various categories of parties have been identified over the years, their strategic approach to political competition remained largely the same: to present a proposal as a possible alternative to that of all other competitors, aiming at attracting support from the highest number of citizens possible, at winning the electoral competitions, at gaining majorities in the different representative institutions concerned and, ultimately, at assuming government responsibilities. This is a strategy that remained largely unchanged over time: to promote its own political proposals as well as possible, through a proper use of the media made available by current technology, but always being aware of operating as "political parties". Recently, however, new political organizations have been on the increase, and they have gained the label of "anti-party parties". They are a new phenomenon, in fact, consisting in the creation of organizations aiming to compete in the electoral and political contest, which refuse from the start to be considered as equivalent to traditional political parties. The anti-party parties do everything to emphasize their (alleged?) substantial difference with the traditional parties, adopting a different internal organizational structure, issuing various statutory documents, using different communication strategies, enacting different internal decision-making procedures, and so on. Anti-party parties - not to be confused with the larger group of "anti-system parties" - do not necessarily aim at subverting the political and institutional order, but rather at presenting themselves as political organizations different from all other political competitors. In this sense, their rejection of the "party" label is the prerequisite to justify their own existence. All policy strategies pursued by anti-party parties find their justification in their imperative need to systematically affirm and confirm their inherent differences. Instead, it is not rare to find some characteristics of the anti-party party model in various degrees also in the traditional political parties. It is undeniable, for example, that mainstream political parties are gradually adopting some operational methods originally developed as communication strategies by anti-party parties. The analysis of this phenomenon, therefore, inevitably raises a crucial question: are we actually dealing with a new type of political party, or are we rather in presence of an innovative new way of doing politics? The difference is anything but irrelevant: if we assume that the anti-party party is a model on its own, it is evident that such a model will be considered as one of many available organizational categories within which you can catalogue the political parties present in a given national context; instead, if we conclude that being "anti-party" instead represents a “state-of-mind”, we should then ask ourselves whether such a strategy cannot be adopted also by traditional political formations in the future. If this second hypothesis is true, an “anti-party operative strategy” could be enacted also by other kinds of political parties, and therefore interact and influence the very essence of already-registered political organizations. The paper provides a description of recent cases of anti-party parties in European contexts and aims to verify if and in which extent they can be considered a cathegory on their own or a newcoming political operative strategy.

Gestire il cambiamento: Renzi, il Pd e il nuovo “collateralismo”
Rossana Sampugnaro (sampugnaro@unict.it)
AbstractI partiti cercano nuove soluzioni organizzative per interloquire con un elettorato che esprime un elevato grado di instabilità e che esprime preferenze individualizzate (Beck, Bauman). I grandi partiti novecenteschi si confrontavano con blocchi sociali omogenei e, in molti casi, ideologicamente orientati. I processi decisionali erano complessi e lenti, in grado di produrre politiche stabili nel medio periodo per un elettorato in larga parte identificato. Nuove organizzazioni politiche, meno articolate e con un carattere di minore stabilità, prendono il posto di strutture ipertrofiche con vaste ramificazioni territoriali e con segmentazioni funzionali e tematiche. Questo processo di de-differenziazione ha interessato le grandi formazioni politiche italiane, producendo una riduzione del numero dei funzionari di partito a livello periferico e centrale e una loro parziale sostituzione con professionisti della comunicazione (giornalisti, media adviser, PR). E’ possibile ravvisare il lento decremento di alcuni caratteri, propri di strutture iperdifferenziate; le campagne su specifiche politiche che contemplano una mobilitazione di tutta la base del partito e l’approvazione di mozioni a livello territoriale; il collante ideologico e la ricerca di una mediazione tra le diverse “anime”; la presenza di una leadership centrale, espressione visibile delle correnti interne. Il problema del coordinamento perde il carattere di centralità perché le organizzazioni meno differenziate sono per loro natura più interconnesse (Hatch). Se emerge la necessità di assumere decisioni immediate per non perdere consenso politico ed elettorale, queste non possono essere prese senza un coinvolgimento dei livelli più bassi della leadership regionale. A questa i leader nazionali garantiscono un livello di autonomia che era impensabile nella grande party machine in cambio di un sostegno incondizionato. Al fenomeno di de-differenziazione e di de-burocratizzazione (Sampugnaro), si affianca l’esternalizzazione di alcune funzioni prima svolte dall’organizzazione di partito. Nello specifico l‘outsourcing riguarda l’aggregazione degli interessi e la produzione delle politiche, la mobilitazione elettorale e la gestione della comunicazione. Possono essere coinvolte agenzie private o organizzazioni con finalità politiche (Think tank, Fondazioni, …), spesso direttamente dipendenti dal leader. Quest’ultimo diventa il nodo centrale del nuovo network di strutture autonome, solo in parte ricadenti nel confine organizzativo del partito. Tutto ciò risponderebbe alla esigenza di un “lean production” di politiche in linea con un ambiente, caratterizzato da un’alta instabilità: il vantaggio starebbe nel costruire una catena di comando breve e un network comunicativo rapido e pronto ad intervenire, che perde la sua relazione diretta con la rete territoriale del partito (Revelli; Raniolo). Lo studio propone questo approccio per comprendere le trasformazioni in atto nel partito democratico in seguito alla nomina di Renzi a segretario. La contrazione della struttura di partito, già in avanzato stato quando Renzi vince le primarie, ha una brusca accelerazione con l’adozione di politiche di riduzione del finanziamento alla politica, avviate dal governo Letta. Questo processo si lega a una forte personalizzazione della politica e del potere e alla nascita di nuove organizzazioni “personali”. Leopolda and Futurdem, due tasselli fondamentali del metodo Renzi, raccolgono sostenitori del leader che solo parzialmente coincidono con gli iscritti e con la tradizione del PD. Tramite queste strutture è possibile raccogliere fondi, mobilitare nuovi supporters esterni al partito, elaborare politiche ma soprattutto includere gruppi eterogenei e singole personalità, non sempre compatibili con il partito e con i suoi riti. Entrambe esprimono una forma di nuovo collateralismo che, al contrario di quello tradizionale, non necessita di una convergenza programmatica. Una web survey ha riguardato due organizzazioni giovanili legate al Pd: Giovani democratici, come articolazione del Pd e Futurdem, un’organizzazione legata direttamente al leader e attiva nella fase delle Primarie. I risultati mettono in luce la coesistenza di supporters con un orientamento valoriale molto divergente sulle politiche pubbliche che, tuttavia, collocati in differenziate enclaves organizzative lavorano per lo stesso partito senza che sia necessaria, nell’immediato, una convergenza.

 

Panel 2.2 «Crisi della democrazia»? Quale «crisi»? E quale «democrazia»? Alla ricerca di una teoria della de-democratizzazione (I)


Nel corso del XX secolo le diagnosi intorno alla ‘crisi’, al ‘declino’ e alla ‘trasformazione’ della democrazia hanno rappresentato una sorta di vero e proprio genere della letteratura politica e politologica, perché è davvero difficile riconoscere una fase storica in cui la democrazia non sia apparsa ‘minacciata’. Nelle diverse stagioni del «secolo breve» (e a seconda della specifica prospettiva d’osservazione), sono però notevolmente mutati i fattori dipinti come ‘cause’ principali della «crisi». Nell’ultimo quarto di secolo le voci che, con toni più o meno allarmati, hanno iniziato a segnalare una nuova «crisi» delle istituzioni democratiche si sono fatte comunque piuttosto insistenti. Proprio mentre il numero complessivo dei regimi democratici cresceva in modo significativo e mentre il principio democratico sembrava avere definitivamente sbaragliato i suoi storici avversari ideologici, molti osservatori – da prospettive anche molto diverse – hanno cominciato a intravedere nelle trasformazioni contemporanee i segnali di uno ‘svuotamento’ delle istituzioni democratiche.
In termini fortemente polemici, Sheldon Wolin ha per esempio definito la democrazia americana come un «totalitarismo rovesciato»; Colin Crouch ha individuato invece la tendenza dei sistemi politici occidentali a spostarsi verso un assetto «post-democratico»; Charles Tilly ha proposto l’idea di una tendenza alla «de-democratizzazione», mentre Peter Mair ha formulato l’ipotesi di una progressiva ‘depoliticizzazione’ delle democrazie occidentali (e in particolare di quelle dei paesi membri dell’Ue). Ma attorno al «malessere democratico» è cresciuto un dibattito sterminato, che è si interrogato soprattutto sul rischio che processi complessi – e in larga parte ‘strutturali’ – vadano obliterare le garanzie «procedurali» della democrazia, tanto da ‘svuotare’ la forma democratica di qualsiasi sostanza politica. Molte ipotesi sostengono cioè che gli elementi ‘minimi’ della democrazia non sono sufficienti a garantire la democraticità del sistema. In altre parole, tendono proprio a chiedersi se le «promesse non mantenute» della democrazia, di cui parlava Norberto Bobbio più di trent’anni fa, non siano divenute così tante, e così rilevanti, da aver del tutto snaturato i caratteri dei regimi occidentali contemporanei.
Il panel intende inserirsi in questa discussione sulla «crisi della democrazia» ponendo una domanda specifica, centrata non tanto sulla rilevazione empirica degli elementi che testimonierebbero la «crisi», quanto sulla stessa definizione teorica della «crisi della democrazia». La definizione della «crisi della democrazia» probabilmente richiede infatti di essere approfondita e aggiornata, per tenere conto di elementi che la classica teoria della democrazia competitiva non considerava (o considerava solo parzialmente), come per esempio le dinamiche di ‘depoliticizzazione’, il ruolo delle «istituzioni non maggioritarie», le pressioni dei «vincoli esterni».
L’obiettivo del panel è dunque quello di sollecitare contributi che tentino di offrire un contributo (prevalentemente teorico) alla precisazione e definizione di una teoria della «crisi della democrazia». In particolare, sono sollecitati paper che si concentrino, anche problematicamente e criticamente, su questi aspetti:
- le proposte di autori che abbiano considerato, in chiave di indagine politologica, la sfida della «de-democratizzazione»;
- il dibattito sulla «crisi della democrazia» e i suoi aspetti critici;
- il concetto di «postdemocrazia»;
- il concetto di «de-democratizzazione»;
- il concetto di «de-politicizzazione» delle istituzioni democratiche

Chairs: Damiano Palano

Habermas, Dahl e la “questione democratica”
ANTONIO FLORIDIA (antonio.floridia@regione.toscana.it)
AbstractIl paper si propone di analizzare alcune pagine del capitolo 7 di Fatti e norme nei quali Habermas si impegna in un dialogo critico con Robert Dahl, e in particolare con quei passaggi de La democrazia e i suoi critici in cui lo studioso americano aveva definito i “criteri normativi” di una possibile definizione della democrazia. Habermas, in questo testo, si propone di analizzare il modo in cui Robert Dahl ha tentato di "tradurre sociologicamente, e verificare empiricamente, la concezione proceduralista della democrazia": l’obiettivo è quello di chiarire in che modo l’idea della democrazia come “auto-organizzazione di liberi consociati giuridici” possa coesistere e misurarsi “con la realtà empirica di società altamente complesse”. In che modo, “dove” e “come”, le procedure democratiche "possono inserirsi nella vita delle società complesse"? questo è l’interrogativo da cui muove Habermas. La discussione delle tesi di Dahl (ed anche, in modo meno ampie, di quelle di Norberto Bobbio) permette ad Habermas di presentare la sua concezione del “contenuto normativo” della democrazia e il ruolo che in essa svolge l’idea di una politica deliberativa. Evocando anche Dewey, e il suo The Public and its problems, Habermas definisce in queste pagine la sua visione della doppia fonte della legittimazione democratica: quella procedurale e costituzionale e quella discorsiva. La qualità di una democrazia non si misura solo dal rispetto di alcune essenziali condizioni procedurali, ma dalla qualità del discorso pubblico che accompagna le decisioni istituzionali e che può conferire (o sottrarre) ad esse un fondamento di legittimità. Il tema è quello, seguendo Dewey, dei “metodi e delle condizioni” con cui si forma un pubblico. Tra i criteri normativi indicati da Dahl, uno in particolare attrae l’attenzione di Habermas: l’idea della “enlightened understanding” dei termini di una decisione politica, che i cittadini dovrebbero essere in grado di formarsi ed esercitare: “la possibilità per tutti”, scrive Habermas “di farsi un’idea precisa – alla luce di informazioni sufficienti e di buone ragioni -, delle materie da disciplinare e degli interessi controversi”. E’ ancora possibile, nelle nostre società complesse, il rispetto di questo criterio normativo? Ed è possibile farlo in presenza di un crescente ruolo di quelle che Dahl chiamava le “policy elites”, ovvero le moderne espressioni del classico “governo dei custodi”? Dal confronto tra Habermas e Dahl emerge il tema della “questione democratica” nel nostro tempo: le ragioni che costantemente ripropongono e tengono aperti i termini di tale “questione”. Ed emergono anche le ragioni che spingono Habermas al rifiuto di ciò che egli definisce “disfattismo normativo”: la tensione tra l’”auto-comprensione normativa” della democrazia e i “fatti” che la contraddicono non può essere letta nei termini di scontata contrapposizione tra gli “ideali” e la “realtà”, ma come l’espressione di un campo di conflitti che trova sempre alimento e che non può essere risolto e chiuso una volta per tutte. E’ per questo che, dall’analisi di questo dialogo tra Habermas e Dahl, possono emergere decisive indicazioni sul modo con cui intendere oggi (e affrontare) la cosiddetta “crisi della democrazia”.

La crisi della democrazia tra strategie di depoliticizzazione e trasformazione neoliberale dello stato
Diego Giannone (dgiannone@unisa.it)
AbstractA partire dagli anni ’80, la rapida diffusione di processi di neoliberalizzazione ha portato a una trasformazione strutturale delle istituzioni statali, schematicamente sintetizzabile nel passaggio da sistemi inclusivi votati al benessere collettivo a sistemi miranti all’efficienza economica e alla competizione internazionale. Il passaggio dallo stato welfarista keynesiano a quello competitivo schumpeteriano segna un momento di cesura importante anche per la concezione della democrazia, la cui crisi viene analizzata, negli anni ’70, come strettamente connessa a quella dello stato e declinata nei termini di crisi “fiscale”, di “ingovernabilità”, di “sovraccarico”, di “legittimazione”. Partendo da alcuni nodi problematici di quel dibattito, il paper intende analizzare la depoliticizzazione come strategia di governo altamente politica, che si realizza nel processo di neoliberalizzazione dello stato con l’obiettivo di sostituire il giudizio politico con la valutazione economica. Verranno prese in esame tre principali modalità con cui si manifesta la depoliticizzazione: 1) la riassegnazione dei compiti governativi a organismi non politici, come la BCE; 2) l’adozione di misure per accrescere il livello di accountability, trasparenza e validazione esterna delle policies; 3) l’accettazione di “regole” esterne vincolanti che limitano lo spazio di manovra del governo (introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, sottoscrizione del cosiddetto Fiscal Compact, ecc.). Ciascuno di questi processi pone sfide impegnative alla democrazia, non solo da un punto di vista normativo, ma anche da quello più strettamente procedurale. Il paper proverà a interrogarsi sulle ragioni di tali cambiamenti, focalizzando l’attenzione su una delle principali strategie di legittimazione dello stato neoliberale, quella racchiudibile nella formula della governance by numbers, una modalità di gestione apparentemente non politica basata sul potere performativo della valutazione quantitativa e dei numeri da essa prodotti.

Teoria democratica, post-democrazia, “suggestioni” foucaultiane: un approccio critico-ricognitivo
Lidia Lo Schiavo (loschiavo@unime.it)
AbstractQuesta proposta di paper prova a rispondere al duplice interrogativo di ricerca definito dal panel, in primo luogo attraverso l’articolazione di un percorso ricognitivo dei principali contributi teorici sul tema della crisi della democrazia. In secondo luogo, in riferimento alla dimensione meta-teorica, l’attenzione viene focalizzata sul discorso politologico in ordine al trattamento analitico del tema della crisi ed alla definizione stessa del concetto di democrazia. In questa cornice di riferimento, si intende sviluppare una chiave interpretativa foucaultiana, decostruttiva e ricostruttiva al tempo stesso. È possibile ricondurre questa prospettiva di analisi alla proposta di riflessione teorica per la scienza politica contemporanea delineata in particolare da Giorgio Fedel. Per il politologo, “il modo proficuo con cui la scienza politica può trarre stimoli e utilizzare la filosofia postmoderna […] [ed il contributo foucaultiano in particolare] è quello di riuscire a convertire, a tradurre, il dato filosofico negli schemi e nei concetti della disciplina” (Fedel, 2008, 370). Ed una delle modalità privilegiate per farlo è quella di tener conto di una “sottospecie del potere simbolico […] che è completamente inesplorata: il potere della conoscenza” cui Foucault ha dedicato particolare attenzione. La traccia genealogica foucaultiana, nel ricostruire la trama della “storia del presente”, sembra poter rispondere dunque al duplice obiettivo, teorico e meta-teorico, che qui viene delineato. La “problematizzazione” del presente può essere ricondotta in prima istanza alla percezione di uno scarto tra l’ideale democratico e le sue realizzazioni empiriche. Gli studiosi critici della teoria egemonica della democrazia, discutono di una trasformazione radicale se non di una progressiva degenerazione delle “democrazie reali”. A partire dal seminale lavoro di Colin Crouch, la condizione postdemocratica viene riconosciuta quale elemento costitutivo dell’episteme politica contemporanea e del quadro di riferimento teorico che la definisce. Il concetto di post-democrazia ricostruisce, sul piano teorico-empirico, la complessa fenomenologia della crisi delle democrazie contemporanee, dalla commercializzazione della cittadinanza all’influenza delle aziende globali e del capitalismo finanziario, dalla trasformazione dei partiti in oligarchie politiche permanenti alla manipolazione del consenso in forme plebiscitarie e antipolitiche. In questa cornice, la “genealogia” della sindrome postdemocratica può essere analizzata privilegiando un resoconto teorico in particolare. Quello che individua nelle dinamiche di “trascendenza dei confini” dei processi decisionali, quindi nella governance transnazionale, una potente dinamica di trasformazione/riduzione dei profili dell’accountability politica-elettorale, in forza di una serie di processi di mutamento: dalle riforme neo-manageriali dei processi decisionali entro la cornice della governance europea (caratterizzata dall’applicazione di ‘ricette’ tecnocratiche che ridimensionano il ruolo delle istituzioni maggioritarie), all’affermarsi dell’egemonia neoliberista a partire dalla “dispersione” del postwar consensus fordista keynesiano con il contestuale “disarmo” della “critica sociale”, dall’egemonia delle oligarchie finanziarie globali all’impatto del policy-making delle organizzazioni intergovernative sulle politics nazionali. In questo ambito analitico, la concettualità foucaultiana offre un importante strumento euristico per l’indagine teorica e critica. In particolare, il concetto di governamentalità viene considerato dagli studiosi come una chiave analitico-empirica assai efficace nello studio delle strutture decisionali della “governance sistemica”, in ordine cioè al combinarsi di specifiche “mentalità di governo”, quindi di elementi materiali e ideologico-cognitivi, in specifiche cornici di “sapere-potere”. Sul piano meta-teorico, è possibile raccogliere la sfida posta dalla riflessione critica al “realismo” delle teorie realiste, ‘neoclassiche’ della democrazia. Come argomenta in particolare Palano, si tratta di riconsiderare i pilastri costitutivi della neutralità e avalutatività della scienza politica contemporanea (in ordine alla distinzione del piano dei fatti dal piano dei valori), a partire dal riconoscimento del radicamento simbolico della democrazia entro un orizzonte storico-politico ideologico specifico, ovvero nell’ambito dell’episteme socio-politica culturale in cui si collocano le “democrazie reali” contemporanee. La chiave teorica foucaultiana permette dunque di ‘problematizzare’ la dimensione epistemica, l’ethos, le ‘pratiche discorsive’ che radicano in una cornice di senso contestuale, “vernacolare”, fisiologia e patologia delle forme democratiche. Permette altresì di riconsiderare la dimensione del potere e del conflitto nel discorso teorico sulla democrazia, come già emerso in alcune letture radicali del paradigma democratico, rilevanti tanto sotto il profilo destruens, quanto nella pars construens in relazione a nuove forme democratiche. Il nesso potere-sapere emerge anche nella dimensione di una sociologia della conoscenza della comunità scientifica politologica in relazione alla scelta del ‘registro’ teorico, analitico, metodologico con cui viene costruita e problematizzata la definizione della democrazia ovvero lo stesso discorso della crisi. In questo senso la “suggestione” foucaultiana che, nella formulazione di Fedel, si offre all’elaborazione teorica politologica, può essere ricondotta anche alle sensibilità sviluppate da quel movimento per il pluralismo metodologico della scienza politica contemporanea, lanciato all’inizio del decennio appena trascorso, da un nuovo Caucus for a New Political Science, per il recupero nel discorso politologico, del radicamento culturale, politico, geografico, storico dei concetti teorici. Riferimenti bibliografici Allum P. (1997), Democrazia reale, Utet, Torino. Bartolini S. (2004), “Tra formazione e trascendenza dei confini. Integrazione europea e stato-nazione”, Rivista Italiana di Scienza Politica, XXXIV, 2, pp. 167-195. Bobbio N. (1984), Il futuro della democrazia, in ID., Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 19953. Boltanski L., Chiapello È. (2014), Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano Udine. Crouch C. (2003), Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari. Crouch C. 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La «crisi della democrazia»: da una visione senza precondizioni al ritorno delle variabili strutturali
Claudio Foliti (claudio.foliti@uniroma1.it)
AbstractQuando anche uno dei più ottimisti sostenitori della diffusione democratica e dei più prestigiosi assertori della superiorità del sistema democratico, Larry Diamond, in un suo articolo del 2015 denuncia la “crisi della democrazia” come un avvenimento su scala globale che non solo segna la fine della terza ondata (Diamond, 1997), ma de facto anche l’inizio di un’ondata di riflusso (Huntington, 1991), non si può ignorarne l’esistenza né rinunciare ad indagarne le cause. D’altronde, gli studi politologici hanno dovuto da sempre fare i conti con la possibile crisi della democrazia. Non si tratta, tuttavia, di un esito ineluttabile, ma per consistenza ed estensione, di un fenomeno sicuramente ineludibile nel suo manifestarsi. Una crisi che può colpire indistintamente, sebbene con modalità e tempistiche molto differenti tra loro, le nuove democrazie e quelle più antiche. Dentro l’impulso non solo positivistico ma anche ottimistico dei “fantomatici” paradigmi della transizione (transitologia) e del consolidamento (consolidologia) democratici, già troviamo ben enucleato ed esplicitato un pericolo che fa ontologicamente parte della genesi delle democrazie. Nel tentativo di dar conto delle dinamiche dei processi di affermazione della democrazia, gli autori che qui definiremo (anche impropriamente) “transitologi” o “consolidologi” (O’Donnell, Schmitter, Huntington, Fukuyama) sono coloro che tra gli anni Ottanta e Novanta del XX secolo hanno offerto gli spunti più interessanti per ciò che concerne il tentativo di rintracciare una teoria quanto più possibile onnicomprensiva, generale, quando non universalistica, dei processi di transizione e consolidamento democratico. Teoria che non ha mancato di tener conto del concetto di «crisi della democrazia», applicato ovviamente ai casi di più recente democratizzazione e al pericolo di improvvisi crolli e più subdole regressioni a forme autoritarie o semi-autoritarie. Tuttavia, la debolezza delle teorie dell’epoca è da rintracciarsi in due elementi: il suo concentrarsi esclusivamente su fattori totalmente endogeni e puramente politici (in tal senso vengono rievocati i machiavellici concetti di fortuna e virtù) del processo di affermazione così come del processo di erosione democratica; la celebrazione della democrazia come pura procedura e metodo orientato a realizzare la libertà umana, secondo un’ottica che non ha tenuto conto degli effetti negativi insiti nello schiacciamento del concetto in senso formalistico. Da questa visione, che rifiuta ogni analisi della democrazia come valore originario e come fine e che non tiene in dovuto conto le variabili endogene strutturali (storia, cultura, quadro sociale o economico) e i fattori internazionali (in tal senso si parla di transitologi come no-preconditionists, Carothers, 2002 e 2007), deriva la difficoltà di comprendere pienamente il fenomeno della crisi democratica. Inoltre, tale indebolimento della democrazia non riguarda solo le nuove realtà, ma anche e forse più sorprendentemente il mondo occidentale. Proprio questa crisi del mondo occidentale, questo deficit di credibilità, sembra essere alla base della debolezza del principio democratico e dei principi ad esso connessi. Dopo una prima analisi della «crisi della democrazia» in base all’ottica transitologica e consolidologica, si cercherà di darne interpretazione ed argomentazione secondo una nuova chiave di lettura che tenga conto, in generale, dei fattori storici, culturali, socio-economici ed internazionali, a dimostrazione che il regime politico è intimamente connesso con elementi tutti sostanziali della vita di una comunità non più definibile esclusivamente in termini statuali. In particolare, tre sembrano gli eventi del nuovo millennio che hanno determinato la crisi della democrazia, intimamente connessa alla perdita del primato culturale dell’Occidente, culla della democrazia: la globalizzazione, che ha determinato l’indebolimento della sovranità degli Stati e ha definitivamente spostato il fulcro delle decisioni rilevanti dalla sfera della politica a quella dell’economia; gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, che hanno fatto perdere quel senso di sicurezza che l’Occidente credeva di aver per sempre conquistato dopo la fine dell’Unione Sovietica, dimostrando che il nuovo guanto di sfida al modello democratico non ha caratteristiche puramente ideologiche, ma anche di altra natura (culturali, storiche, afferenti al quadro internazionale); la crisi economica iniziata nel 2008, che ha ulteriormente sfibrato l’Occidente a tal punto da spingere i Paesi non-occidentali, tutti intenti a perseguire un benessere materiale senza precedenti, a preferire nuove soluzioni politiche rispetto alla democrazia liberale classica.

 

Panel 2.2 «Crisi della democrazia»? Quale «crisi»? E quale «democrazia»? Alla ricerca di una teoria della de-democratizzazione (II)


Nel corso del XX secolo le diagnosi intorno alla ‘crisi’, al ‘declino’ e alla ‘trasformazione’ della democrazia hanno rappresentato una sorta di vero e proprio genere della letteratura politica e politologica, perché è davvero difficile riconoscere una fase storica in cui la democrazia non sia apparsa ‘minacciata’. Nelle diverse stagioni del «secolo breve» (e a seconda della specifica prospettiva d’osservazione), sono però notevolmente mutati i fattori dipinti come ‘cause’ principali della «crisi». Nell’ultimo quarto di secolo le voci che, con toni più o meno allarmati, hanno iniziato a segnalare una nuova «crisi» delle istituzioni democratiche si sono fatte comunque piuttosto insistenti. Proprio mentre il numero complessivo dei regimi democratici cresceva in modo significativo e mentre il principio democratico sembrava avere definitivamente sbaragliato i suoi storici avversari ideologici, molti osservatori – da prospettive anche molto diverse – hanno cominciato a intravedere nelle trasformazioni contemporanee i segnali di uno ‘svuotamento’ delle istituzioni democratiche.
In termini fortemente polemici, Sheldon Wolin ha per esempio definito la democrazia americana come un «totalitarismo rovesciato»; Colin Crouch ha individuato invece la tendenza dei sistemi politici occidentali a spostarsi verso un assetto «post-democratico»; Charles Tilly ha proposto l’idea di una tendenza alla «de-democratizzazione», mentre Peter Mair ha formulato l’ipotesi di una progressiva ‘depoliticizzazione’ delle democrazie occidentali (e in particolare di quelle dei paesi membri dell’Ue). Ma attorno al «malessere democratico» è cresciuto un dibattito sterminato, che è si interrogato soprattutto sul rischio che processi complessi – e in larga parte ‘strutturali’ – vadano obliterare le garanzie «procedurali» della democrazia, tanto da ‘svuotare’ la forma democratica di qualsiasi sostanza politica. Molte ipotesi sostengono cioè che gli elementi ‘minimi’ della democrazia non sono sufficienti a garantire la democraticità del sistema. In altre parole, tendono proprio a chiedersi se le «promesse non mantenute» della democrazia, di cui parlava Norberto Bobbio più di trent’anni fa, non siano divenute così tante, e così rilevanti, da aver del tutto snaturato i caratteri dei regimi occidentali contemporanei.
Il panel intende inserirsi in questa discussione sulla «crisi della democrazia» ponendo una domanda specifica, centrata non tanto sulla rilevazione empirica degli elementi che testimonierebbero la «crisi», quanto sulla stessa definizione teorica della «crisi della democrazia». La definizione della «crisi della democrazia» probabilmente richiede infatti di essere approfondita e aggiornata, per tenere conto di elementi che la classica teoria della democrazia competitiva non considerava (o considerava solo parzialmente), come per esempio le dinamiche di ‘depoliticizzazione’, il ruolo delle «istituzioni non maggioritarie», le pressioni dei «vincoli esterni».
L’obiettivo del panel è dunque quello di sollecitare contributi che tentino di offrire un contributo (prevalentemente teorico) alla precisazione e definizione di una teoria della «crisi della democrazia». In particolare, sono sollecitati paper che si concentrino, anche problematicamente e criticamente, su questi aspetti:
- le proposte di autori che abbiano considerato, in chiave di indagine politologica, la sfida della «de-democratizzazione»;
- il dibattito sulla «crisi della democrazia» e i suoi aspetti critici;
- il concetto di «postdemocrazia»;
- il concetto di «de-democratizzazione»;
- il concetto di «de-politicizzazione» delle istituzioni democratiche

Chairs: Damiano Palano

Gandhi through the ‘Epistemologies of the South’ as a response to the political crisis
Cristiano Gianolla (cgianolla@gmail.com)
AbstractThe political crises emerges in a wide range of liberal representative regimes with the increasing rate of electoral abstention, dissatisfaction of voters with political parties and elites and with their capacity to represent ideas, social interests and to foster social equality. On the one hand, parties and elites seem to be unable to provide innovative and appealing solutions to the increasing rate of social inequalities, on the other hand they are perceived as self-referential and not open to engage society in order to explore alternative solutions. The political crises questions the relation of liberalism and democracy, looking at the status of this relation research may find evidence for the crises and ways beyond it. Social questioning of representation and representability (abstention, disaffection, protest) is a democratic response to the failure of the liberal pillar to democratise access to political power and hold the elite accountable. In that sense the political crises is the crisis of political liberalism, something rooted in the history of liberal democracy and stretched by neoliberalism. A few decades back, when liberal-democratic regimes controlled colonial empires, Mohandas Karamchand Gandhi developed an original and alternative democratic theory based on local, ethical communities and substantiated by an alternative epistemological perspective. The political history of India overlooked Gandhi’s proposal to embrace a western model of regime so that the political potential of his theory could not be consistently experimented. However, almost 70 years later, Gandhi’s teaching still fascinates political thinkers equipped with the audacity to believe that ‘another world is possible’ and that reflection on democratisation should complement those on democracy and its quality. Is it conceivable to read and attempt to respond to the political crises of liberal-democratic regimes in light of Gandhian thinking? For instance, how to re-interpret the populist challenge (and opportunity?) through Gandhi’s experience? The reading of Gandhian democratic teachings with an appropriate epistemological perspective may come as a great contribution for democratic theory. This paper aims at revisiting Gandhi’s democratic view from the perspective of Santos ‘Epistemolgies of the South’, a theoretical framework pointing at exploring the validity of those alternatives to mainstream theory that are marginalised by political discourse.

Intra-Party Democracy and Leadership Selection Methods – A Comparative Analysis of Political Parties in Europe
Annalisa Cappellini (annalisa.cappellini@kcl.ac.uk)
AbstractTo what extent parties must be, should be and are internally democratic in terms of their internal distribution of power and decision-making practices? This is a crucial question yet still under researched by political scientists. This paper aims to address this research deficit and assess the extent to which a more inclusive and open leadership selection method increases the level of Intra Party Democracy (IPD). Considering the importance of parties to the realisation of democracy at the system level it is imperative to understand their internal workings. In normative debates the argument is sometimes raised that making parties more internally democratic may reverse the negative trend and tackle their crisis. The concept of IPD is gaining increasing attention given its apparent potential 'to promote a virtuous circle' able to link ordinary citizens to government and to contribute to the stability and legitimacy of the democracies in which these parties compete for power. At its core IPD is about the internal distribution of power within a political party and according to some scholars the most used instrument to pursue IPD is the enhancement of the inclusiveness of leadership selection methods. Even though some attention has been paid to the study of more inclusive methods for selecting candidates, the literature has been far less engaged in analysing the changes in terms of IPD generated by the adoption of more inclusive leadership selection method. Furthermore, the field of leadership selection is still under researched and the existing literature is both quite fragmented and lacks in extensive cross-national and cross-party comparison. Drawing from the tradition of participatory democracy and supported by Dahl’s five criteria of democracy, this paper will shed a light on the very concept of IPD and its practical realization in Europe. I will start by classifying the existing patterns of party leadership selection methods and IPD in 30 European democracies thus providing a snapshot of the current state of affairs; then by examining the practices of 165 major parliamentary political parties in Europe, I will be able to show the link between different categories and the level of democracy existing in specific parties. IPD will be measured according to the key democratic parameters of Participation, Representation, Competition, Responsiveness/Accountability and Transparency. By presenting a cross-party, cross-country large “N” analysis I will be able to offer a wider picture of the impact played by the adoption of different types of party leadership selection methods on IPD. I will also able to test whether the trends and the findings that have been so far identified by small “n” comparative studies can be applied and are valid on a larger scale. This paper will thus provide a valuable empirical contribution which will help the development of theoretical and normative debates around IPD and its implications for contemporary political parties.

Nota sul concetto di de-politicizzazione delle istituzioni democratiche secondo Burnham
Giovanna Pugno Vanoni (pugnovanoni@tiscali.it)
AbstractNel 1941 James Burnham pubblicò la sua “The Managerial Revolution” - la traduzione italiana uscì per i tipi di Mondadori nel 1946 e il titolo fu tradotto in “La rivoluzione dei tecnici”. L’idea di Burnham era che sia la forma esteriore della proprietà sia quella della politica erano ormai un involucro vuoto, nel quale il potere concreto era passato ai tecnocrati. Questo era ben visibile sia nella versione americana del New Deal sia in quella dell’Urss staliniana e perfino nell’Europa sotto il controllo di un nazismo che Burnham identificava ancora con l’efficientismo degli Schacht e degli Speer. L’intero quadro delle questioni aperte può essere riassunto da un quesito di fondo: qual è il rapporto tra competenza e politica? È evidente che in una società industriale sviluppata su linee scientifico-tecnologiche il ruolo della competenza nella indicazione dei mezzi diventa di speciale rilievo. Nella tensione tra competenza e politica si riflette il dilemma relativo all’ufficio di generalità. Chi è il generalista? È diventato il tecnocrate, secondo la sua aspirazione omnicomprensiva? O in ultima analisi rimane, malgrado tutto, il politico? Generalista è infatti chi, messe nel conto le diverse variabili, anche strumentali, indica i fini. Ma basta la competenza a decidere sui fini? La preponderanza dei direttori può comporta la scomparsa del potere politico o solo una sua diversa allocazione e configurazione. Partendo dall’analisi del contributo di Burnham, il paper si propone di fornire degli spunti relativi al concetto di de-politicizzazione delle istituzioni democratiche.

Understanding the crisis of democracy
Matteo Laruffa (mlaruffa@luiss.it)
AbstractTITLE UNDERSTANDING THE CRISIS OF DEMOCRACY AUTHOR Matteo Laruffa, PhD Student (LUISS University) - Member Council for European Studies (Columbia University) Abstract The purpose of the paper is to answer the following research question: how to explain the current crisis of democracy? The paper will first present the current state of both democratic and non-democratic regimes in the world. This will show that even democratization has been one of the main macro-political phenomena of the last century, this trend has radically changed with new pessimism about democracy and the resurgence of authoritarianism. Secondly, it will identify the scope of this analysis in western democracies and the relevant literature concerning the theoretical problem of understanding the crisis of democracy. Hence, it will summarize the main theoretical approaches and some recent contributions which are particularly relevant in terms of empirical research, method, and theoretical analysis. The third part of the paper will explain the crisis of democracy as a lag in the process of adaptation. It is mainly devoted to the notion of the crisis of democracy and adaptability. It offers three main hypotheses in order to address the research question of the paper. These hypotheses depict the tensions of the utmost importance which have impacted democracy in terms of citizens’ disengagement, radicalization of politics, less responsive policies, and deviation from traditional sources of legitimization. It will finally discuss why regimes should be adaptable if they want to preserve their identity and how the crisis of democracy changes not just the models of democracy, but the idea of democracy. Keywords: crisis of democracy, adaptability, ultimate tensions, western democracies

Understanding the crisis of democracy
Matteo Laruffa (mlaruffa@luiss.it)
AbstractTITLE UNDERSTANDING THE CRISIS OF DEMOCRACY AUTHOR Matteo Laruffa, PhD Student (LUISS University) - Member Council for European Studies (Columbia University) Abstract The purpose of the paper is to answer the following research question: how to explain the current crisis of democracy? The paper will first present the current state of both democratic and non-democratic regimes in the world. This will show that even democratization has been one of the main macro-political phenomena of the last century, this trend has radically changed with new pessimism about democracy and the resurgence of authoritarianism. Secondly, it will identify the scope of this analysis in western democracies and the relevant literature concerning the theoretical problem of understanding the crisis of democracy. Hence, it will summarize the main theoretical approaches and some recent contributions which are particularly relevant in terms of empirical research, method, and theoretical analysis. The third part of the paper will explain the crisis of democracy as a lag in the process of adaptation. It is mainly devoted to the notion of the crisis of democracy and adaptability. It offers three main hypotheses in order to address the research question of the paper. These hypotheses depict the tensions of the utmost importance which have impacted democracy in terms of citizens’ disengagement, radicalization of politics, less responsive policies, and deviation from traditional sources of legitimization. It will finally discuss why regimes should be adaptable if they want to preserve their identity and how the crisis of democracy changes not just the models of democracy, but the idea of democracy. Keywords: crisis of democracy, adaptability, ultimate tensions, western democracies

 

Panel 2.3 Esperti e democrazia (I)


Quello della relazione tra conoscenza e politica è un tema classico della teoria politica. Per capire la rilevanza di tale questione per la riflessione filosofica e normativa, è sufficiente pensare all’idea platonica secondo cui sono i filosofi a dover governare la società ideale. Anche John Stuart Mill, nella sua riflessione su democrazia e governo rappresentativo, affronta il problema difendendo il voto plurimo, ovvero l’idea che, poiché le persone più istruite dovrebbero avere la possibilità di influire maggiormente nei processi di decisione democratica, queste dovrebbero avere a disposizione più voti rispetto a quelle meno istruite.
Recentemente, la questione del rapporto tra conoscenza e democrazia ha trovato nuovo spazio nel dibattito accademico grazie a filosofi politici come David Estlund e Thomas Christiano, i quali hanno cercato, da un lato, di valutare limiti e meriti della cosiddetta “epistocrazia” e, dall’altro, di capire il ruolo che gli esperti dovrebbero ricoprire nei processi di decisione democratica. Esiste, infatti, una tensione tra expertise e democrazia: se le pratiche democratiche si basano sul principio dell’uguaglianza politica, affidarsi a esperti mina l’idea stessa di democrazia; il governo degli esperti può produrre decisioni migliori, ma allo stesso tempo può minacciare la legittimità democratica.
Come sostiene Robert Dahl, non solo esiste un dilemma tra l'efficacia del sistema politico e la partecipazione dei cittadini, ma l’affidarsi agli esperti può anche trasformarsi in una perdita di controllo da parte dei cittadini. Il problema degli esperti non è squisitamente filosofico, ma rilevante anche dal punto di vista della scienza politica. Negli ultimi anni, molti autori si sono concentrati sul problema della “tecnocrazia”, data anche l’importanza che la figura del “tecnocrate” ha assunto nell’immaginario collettivo. In particolare, autori come Fatherstone, Harcourt, Radaelli, Fischer, Wallace, Schmidt si sono concentrati sul caso dell’Unione Europea, cercando di capire il rapporto tra la natura tecnocratica delle procedure di decisione politica all’interno dell’Unione e il suo cosiddetto “deficit democratico”. Non si tratta, infatti, solo di capire quali governi devono essere considerati tecnocratici, e quindi quali sono le caratteristiche fondamentali che li rendono tali, ma anche se tecnocrazia e democrazia devono essere considerati incompatibili.
La questione è controversa. Se è vero, come sostengono Holst e Kitcher, che esiste un “fatto dell’expertise”, per cui è impossibile prendere decisioni politiche razionali senza ricorrere al giudizio degli esperti a causa della complessità delle società contemporanee, allora sembra ovvio pensare che le politiche pubbliche di regimi democratici debbano essere costruite a partire da conoscenze scientifiche. Questa è l’idea della evidence-based policy, difesa da autori quali Nancy Cartwright e Jeremy Hardle. Sebbene sembri intuitivamente corretta, è innegabile che tale idea presenti alcuni punti di criticità. In particolare, il dibattito si è concentrato su quali evidenze possono essere considerate buone; dove e come tali evidenze dovrebbero essere trovate; e in quale passaggio del processo politico dovrebbero essere presentate e utilizzate. In questo senso, un altro problema rilevante riguarda il modo in cui devono agire gli scienziati coinvolti nei processi di decisione politica, in particolare quando le loro opinioni possono avere implicazioni normative, o quando vengono interpellati su questioni soggette a disaccordo.
Sono benvenute proposte di papers che affrontino i temi e i problemi richiamati nell’abstract e che offrano spunti di riflessione e discussione su:
- in che modo e in quale misura il giudizio dei cittadini dovrebbe essere influenzato da quello degli esperti
- quale sia la relazione appropriata tra esperti e cittadini
- i criteri di selezione per gli esperti
- il problema del disaccordo tra esperti
- se gli esperti debbano essere sottoposti a procedure di accountability e, nel caso, quali
- se sia possibile risolvere la tensione tra conoscenza e democrazia
- l’idea di epistocrazia
- i criteri per l’identificazione di governi tecnocratici
- il ruolo degli scienziati nell’elaborazione delle politiche pubbliche
- i criteri di selezione per le evidenze da utilizzare nei processi di policy-making
- i problemi legati all’oggettività nella evidence-based policy
- se la scienza sia neutrale da un punto di vista politico e morale

Chairs: Antonella Besussi

Democrazia, scienze del pubblico, istituzioni
Gloria Regonini (gloria.regonini@unimi.it)
AbstractQuesto contributo muove da uno dei concetti più interessanti per l’analisi delle relazioni tra esperti e democrazia: il riferimento è all’idea di governmentality (Foucault 1979), soprattutto in alcune sue riletture (Rose,1996; O'Farrell 2005). La prima parte del paper cerca di definire le prospettive aperte da questo concetto rispetto a quelli di ‘government’ e ‘governance’. La seconda parte prova a ricostruire la filogenesi della governmentality occidentale contemporanea facendo riferimento ad alcune epistemologie primarie, capaci di dare senso a quello che le istituzioni politiche fanno, di legittimare il loro operato in termini normativi, di consolidarne la coerenza interna con lo sviluppo di specifici apparati disciplinari. In questo percorso, viene discusso il concetto di ‘ontologia’, con riferimento all’uso che viene fatto di questo termine nel contesto delle computer and information sciences:“An ontology is an explicit specification of a conceptualization” (Gruber, 1993). La parte centrale del paper analizza quattro ‘ontologie’, quattro potenti descrittori di quello che fanno le istituzioni, e dei loro peculiari legami con le teorie normative della democrazia: - la prospettiva giuridica (lo stato moderno è stato di diritto) - la prospettiva di finanza pubblica (le rivoluzioni moderne affermano il principio ‘no taxation without representation’) - la prospettiva amministrativa (l’amministrazione moderna è non solo legale, ma anche razionale) - da ultimo, la prospettiva di policy come social problem solving (Briggs, 2008), con le sue radici nel pragmatismo come filosofia pubblica. Ma ciascuna di queste ontologie ha anche limiti oltre i quali la sua declinazione 'incontrastata' può entrare in conflitto con l'idea stessa di democrazia, oltre che con le istituzioni rappresentative. L’ultima parte del paper è dedicata ad approfondire i punti di forza e di debolezza dell’evidence based policy analysis rispetto al funzionamento e alla legittimazione delle istituzioni democratiche.

The dam project: Who are the experts?
Eleonora Montuschi (e.montuschi@lse.ac.uk), Pierluigi Barrotta (pierluigi.barrotta@unipi.it)
AbstractThere is a problem of demarcation in public debates involving technical matters: expert vs. non-expert knowledge. There is a view that citizens have the right to participate in these debates, normally in the ‘political’ stages of their development. However, it is much more controversial whether participation should be allowed in the more ‘technical’ stages of problem solving. How effective is non-expert knowledge vis a vis expert knowledge? What contribution can it offer? Why should it be listened to? Should it be labelled as ‘knowledge’ at all? We do live in an ‘expert culture’, after all. For most decisions, actions, resolutions, estimates, choices – in both private and public life – we know that we can rely on, or refer to, an ‘expert’ (often more than one) in the relevant field. And so we happily delegate to experts the burden of decisions concerning what to do and how to do it. But how happily so? Paradoxical as it might sound, we also live in an ‘expert-wearied culture’ – or even worse, in an ‘expert-despondent culture’. Experts often betray our trust, and challenge the pact of credibility that should come with their profession. There is an argument that non-expert knowledge not only has a specific contribution to offer, but also that such contribution is a necessary condition for the success of problem-solving outputs. Sometimes, it is even argued, it just squares better than expert knowledge (eg Wynne 1996). So, do we need experts? Should they be trusted, and under what conditions? Should they be consulted, and for what reasons? What role (if any) should they be asked to play in producing and assessing what knowledge is required in specific circumstances? In this paper we would like first to assess the specificity and the differences between two types of knowledge that can be classified respectively as expert and non-expert, namely ‘scientific’ knowledge and ‘local’ knowledge, as well as clarify in what sense they both qualify as types of ‘knowledge’. Secondly, we will discuss whether these two types of knowledge are disjunctive or complementary. Thirdly, we will argue that if we believe that they can be complementary, a theoretical framework of conditions and practical requirements should be articulated to allow technical information and more informal experience suitably to combine. Participatory democracy can only be a good tool of governance in so much as all the parties have a clearly defined and recognized role to play. We will argue for the need for this interactive framework by analysing a case study that displays many of the contentious features mentioned above. In 1963 a huge landslide covered the Vajont valley, where one of the tallest arch dams in the world had been put in place (completed in 1959). The dam itself did not suffer damage but massive flooding spread over the valley with catastrophic consequences for the villages there situated. More than 2000 people died. The locals had repeatedly warned the scientists that the sides of the valley were too fragile to hold significant impact, and publicly raised concern. The ensuing media debate surrounding issues of safety in the valley soon became manipulated for political purposes. We are here not interested in assessing criminal responsibility (the scientists involved in the dam project were at the time put on trial and convicted – excluding the engineer Carlo Semenza who designed the dam, and who died in 1961). What we intend to analyse is how two types of knowledge confronted each other in this instance: on the one side the official science, based on sophisticated engineering knowledge, and on the other the local experience and forms of assessment of the inhabitants of the valley. From the clash between these two types of knowledge we will draw some epistemological conclusions: 1) Local opinion is important, not only in political terms (eg, regarding whether and how to use scientific knowledge on matters that concern public safety). Scientific claims normally take a general form, but their application requires a whole host of ‘supporting factors’ drawn from local awareness of the specific circumstances of application. Science can learn from local knowledge, and also has the means and resources to rectify its own mistakes. 2) At least in some situations (as the Vajont case points out) the two types of knowledge should be complementary. It is an epistemological mistake to oppose scientific and local knowledge (as for example suggested by some radical constructivists), for reasons that will be detailed and qualified in the paper. 3) Arguing in favour of participatory democracy can be done not only from a political theory perspective, but also by looking for suitable insight from the philosophy of science.

Should experts influence citizens’ judgment?
Giulia Bistagnino (g.bistagnino@gmail.com), Enrico Biale (enrico.biale@uniupo.it)
AbstractThe problem of the proper role of knowledge in political decision-making is a traditional and major concern for political philosophers. In the last years, such debate has found a renewed interest and the focus has been cast on the role of experts within democratic societies: does making room for experts in policy-making amount to a loss of democracy, whose core value is that of political equality? The problem is particularly thorny if we consider the fact that, given the complexity of contemporary societies, not only it is simply impossible for every citizen to participate intelligently on each and every political issue, but also that it is necessary to rely on experts to reach sound political decisions. For these reasons, it has been argued for a division of labour between experts and citizens (Dewey 1927; Christiano 1996; 2012; Urbinati 2006). According to this view, citizens can set an agenda for pursuing social problems, that need to be identified by experts, and specify the aims of the policies that cope with these problems, while experts define the means and strategies to pursue such aims. The integration between these processes is grounded by political deliberation that facilitates a reasoned exchanged between the facts provided by experts and the values developed by citizens. In this sense, the division of labour is usually based on the assumption that experts should (and can) provide neutral, apolitical, technical advice to representatives and citizens, so to be, as Winston Churchill famously stated, “on tap but not on top”. In this paper, we challenge this view by claiming that it is grounded on problematic epistemological and political premises. Our aim is to evaluate and provide a better understanding of the role of experts within democratic societies, and to understand whether, how, and to what extent experts’ judgments should influence citizens’ political judgments. We start by arguing that the division of labour perspective relies on a simplistic conception of the fact/value distinction and of the division between science and politics. Indeed, not only judgments of value are deeply embedded in the practice of science (Kitcher 2001), but also science is never the pursuit of truth full stop, but the pursuit of those truths scientists find significant (Dewey 1988). Moreover, the common idea which distinguishes science, intended as the realm of agreement, from ethics, intended as the realm of disagreement, is flawed. Scientists and technical experts disagree strongly about states of affairs, levels of risk and uncertainty, policy efficiency, etc. Finally, to ground the division of labour on the distinction is controversial also because of the difficulties citizens have in evaluating the claims of experts (Brewer 1997), and because it is not at all clear whether and how laypeople can identify experts (Goldman 1999; 2001). Given this simplistic epistemological framework, division of labour accounts are not able to describe and guide the political role of experts, the values that are conveyed by their proposals, and the normative standards against which these claims should be assessed. Since experts exercise a political role and their proposals convey values, their claims should not only be evaluated for their correctness but for their political viability and legitimacy as well. A proper account of the role of experts within democratic society should then provide standards to assess whether their claims are politically justified (Bertram 1997; White and Ypi 2011), namely grounded on reasons that can be accepted by a political community. The role of political deliberation is not only to facilitate experts in enabling citizens to make sensible political judgements but to allow members of the demos to critically assess if the proposals of experts are politically justifiable. References Bertram, C. (1997) “Political Justification, Theoretical Complexity, and Democratic Community”, Ethics, 107(4), 563-583. Brewer, S. (1997) “Scientific Expert Testimony and Intellectual Due Process”, Yale Law Journal, 107, pp. 1535–679. Christiano, T. (1996) The Rule of the Many Fundamental Issues in Democratic Theory, Boulder: Westview Press. ------------------ (2012) “Rational deliberation among experts and citizens”, in J. Parkinson & J. Mansbridge [eds.] Deliberative Systems, Cambridge: Cambridge University Press, pp. 27-51. Dewey, J. (1927) The Public and Its Problems, New York: Henry Holt. ------------ (1988) “Experience and Nature”, in J. A. Boydston [ed.] The Later Workds vol. 1, Carbondale and Edwardsville: Southern Illinois Press. Goldman, A. I. (1999) Knowledge in a Social World, Oxford: Clarendon Press.
 ------------------- (2001) “Experts: Which Ones should You Trust?”, Philosophy and Phenomenological Research, 63, pp. 85-110. Kitcher, P. (2001) Science, Truth, and Democracy, Oxford: Oxford University Press. Urbinati, N. (2006) Representative Democracy: Principles and Genealogy, Chicago: University of Chicago Press. White, J. and Ypi, L. (2011) “On Partisan Political Justification”, American Political Science Review, 105 (2), pp. 381-96.

In Search of Better Politcs. Linking Mini-publics and the Deliberative System
Andrea Felicetti (andrea.felicetti@sns.it), Nicole Curato (nicole.curato@canberra.edu.au), Simon Niemeyer (simon.niemeyer@canberra.edu.au)
AbstractEpistemological considerations have always been a core concern to promoters of deliberative democracy. In the wake of the systemic turn in deliberative theory, promoting inclusive and epistemologically sound political processes remains a core challenge for deliberative democrats. Though deliberative democracy pays increasing attention to the contribution of other forms of participations, public deliberation remains a tool of vital importance to promote deliberative democracy. One of the oft-mentioned virtues of public deliberation consists of its ability to improve the epistemological quality of political processes. Through exposition to relevant documents and experts’ opinion, citizens engaged in democratic deliberation are put in condition to develop a good understanding on a given issue of public relevance. Citizens’ deliberation can then be used to inform policy makers and fellows citizens. Appealing as it may sound at first glance, this process is, in fact, frown with difficulties. In particular, one may run the best mini-public where reasons are exchanged in an inclusive, respectful and public-spirited manner, but this has little bearing in a political system shaped by polarising rhetoric, spin doctoring and profit-oriented media. Deliberative democracy, as Simone Chambers (2009) rightly points out, is a project that involves ‘mass democracy,’ that more needs to be done to ensure that the public sphere and formal sites of power realise are actually capable of making use of the possible benefits that public deliberation may have. This is not to say that a broad view of deliberative democracy should give up on the study of mini-publics. While the systemic turn has shifted the attention away from mini-publics to various spaces in which discourses can be contested, it also brings forth a re-evaluation of the normative theory underpinning mini-publics. What are the functions of mini-publics in a deliberative system? What is the relationship between macro and micro deliberation? Put another way, how can a citizen jury or deliberative forums in general contribute to a deliberative democracy and better political processes? We aim to provide analytical clarity on these matters by theorising the relationship between macro and micro-deliberation in the context of a deliberative system. We put forward two main conjectures. First, we argue that macro and micro deliberation are conceptually distinct but inherently connected. The connection, however, is more tenuous than originally proposed by some deliberative democrats. We argue that mini-publics are best appreciated as sites that ‘filter’ discussions in the public sphere, rather than sites of decision-making. This role is the best one in allowing democratic systems to exploit the epistemological contribution of public deliberation. The macro-political impact of mini-publics should be on the level of shaping the course of public will-formation (discursive) rather than making decisions on behalf of the public (decision-making). The challenge, therefore, is imagining ways in which mini-publics establish links with the public space, instead of formal sites of political decision-making. This theoretical position enables deliberative democrats to address legitimacy and practicality issues raised by those who question the democratic character of micro-deliberative forums. Second, we argue that ‘real world’ deliberation takes place in a dynamic and evolving setting rather than a static one. When analysing mini-publics, it is essential to account for the diffusion of wider spreading effects (event specific) as well as potential knock-on effects (indirectly related to the event). That is, there are direct and indirect ways in which public deliberation can contribute to enhance inclusive and high quality decision making. We make both a conceptual and methodological point here, which call for an extended analysis of mini-publics beyond the forum in order to critically assess its systemic impact. We provide empirical context to our theoretical claims by focusing on two/three case studies of mini-publics conducted in Bologna, Uppsala and Sydney.

 

Panel 2.3 Esperti e democrazia (II)


Quello della relazione tra conoscenza e politica è un tema classico della teoria politica. Per capire la rilevanza di tale questione per la riflessione filosofica e normativa, è sufficiente pensare all’idea platonica secondo cui sono i filosofi a dover governare la società ideale. Anche John Stuart Mill, nella sua riflessione su democrazia e governo rappresentativo, affronta il problema difendendo il voto plurimo, ovvero l’idea che, poiché le persone più istruite dovrebbero avere la possibilità di influire maggiormente nei processi di decisione democratica, queste dovrebbero avere a disposizione più voti rispetto a quelle meno istruite.
Recentemente, la questione del rapporto tra conoscenza e democrazia ha trovato nuovo spazio nel dibattito accademico grazie a filosofi politici come David Estlund e Thomas Christiano, i quali hanno cercato, da un lato, di valutare limiti e meriti della cosiddetta “epistocrazia” e, dall’altro, di capire il ruolo che gli esperti dovrebbero ricoprire nei processi di decisione democratica. Esiste, infatti, una tensione tra expertise e democrazia: se le pratiche democratiche si basano sul principio dell’uguaglianza politica, affidarsi a esperti mina l’idea stessa di democrazia; il governo degli esperti può produrre decisioni migliori, ma allo stesso tempo può minacciare la legittimità democratica.
Come sostiene Robert Dahl, non solo esiste un dilemma tra l'efficacia del sistema politico e la partecipazione dei cittadini, ma l’affidarsi agli esperti può anche trasformarsi in una perdita di controllo da parte dei cittadini. Il problema degli esperti non è squisitamente filosofico, ma rilevante anche dal punto di vista della scienza politica. Negli ultimi anni, molti autori si sono concentrati sul problema della “tecnocrazia”, data anche l’importanza che la figura del “tecnocrate” ha assunto nell’immaginario collettivo. In particolare, autori come Fatherstone, Harcourt, Radaelli, Fischer, Wallace, Schmidt si sono concentrati sul caso dell’Unione Europea, cercando di capire il rapporto tra la natura tecnocratica delle procedure di decisione politica all’interno dell’Unione e il suo cosiddetto “deficit democratico”. Non si tratta, infatti, solo di capire quali governi devono essere considerati tecnocratici, e quindi quali sono le caratteristiche fondamentali che li rendono tali, ma anche se tecnocrazia e democrazia devono essere considerati incompatibili.
La questione è controversa. Se è vero, come sostengono Holst e Kitcher, che esiste un “fatto dell’expertise”, per cui è impossibile prendere decisioni politiche razionali senza ricorrere al giudizio degli esperti a causa della complessità delle società contemporanee, allora sembra ovvio pensare che le politiche pubbliche di regimi democratici debbano essere costruite a partire da conoscenze scientifiche. Questa è l’idea della evidence-based policy, difesa da autori quali Nancy Cartwright e Jeremy Hardle. Sebbene sembri intuitivamente corretta, è innegabile che tale idea presenti alcuni punti di criticità. In particolare, il dibattito si è concentrato su quali evidenze possono essere considerate buone; dove e come tali evidenze dovrebbero essere trovate; e in quale passaggio del processo politico dovrebbero essere presentate e utilizzate. In questo senso, un altro problema rilevante riguarda il modo in cui devono agire gli scienziati coinvolti nei processi di decisione politica, in particolare quando le loro opinioni possono avere implicazioni normative, o quando vengono interpellati su questioni soggette a disaccordo.
Sono benvenute proposte di papers che affrontino i temi e i problemi richiamati nell’abstract e che offrano spunti di riflessione e discussione su:
- in che modo e in quale misura il giudizio dei cittadini dovrebbe essere influenzato da quello degli esperti
- quale sia la relazione appropriata tra esperti e cittadini
- i criteri di selezione per gli esperti
- il problema del disaccordo tra esperti
- se gli esperti debbano essere sottoposti a procedure di accountability e, nel caso, quali
- se sia possibile risolvere la tensione tra conoscenza e democrazia
- l’idea di epistocrazia
- i criteri per l’identificazione di governi tecnocratici
- il ruolo degli scienziati nell’elaborazione delle politiche pubbliche
- i criteri di selezione per le evidenze da utilizzare nei processi di policy-making
- i problemi legati all’oggettività nella evidence-based policy
- se la scienza sia neutrale da un punto di vista politico e morale

Chairs: Antonella Besussi

Discussants: Nicola Pasini

Policy advisors and evidence-based policy: a literature review
maria tullia galanti (maria.galanti@unimi.it)
AbstractThe relationship between politics and knowledge production and utilisation is increasingly important for contemporary democracies facing the challenges governance and crisis. This raises normative questions about the boundaries of politics and knowledge in democracy. At the same time, knowledge can also take different forms from an empirical point of view, while the use that politics does of knowledge can vary. How do governments make use of knowledge? Who are the policy advisors and how do they produce knowledge for the policy-making? When do policy advisors intervene through the policy process and, more importantly, what is the relationship between policy advisors and leaders? This paper proposes to review the public policy literature on policy advise as a specific activity in the policy process. The review will offer a summary of recent empirical assessments of the production and usage of knowledge in different democratic contexts. The paper aims to contribute to the discussion about the relationship between knowledge and democracy by using empirical references in the literature to shed some light on the tensions inherent in this relationship.

Proceduralism and the Epistemic Dilemma of Supreme Courts
Federica Liveriero (federica.liveriero@uniupo.it), Daniele Santoro (dsantoro@luiss.it)
AbstractProceduralists hold that democracy has a non-instrumental value consisting in the ideal of equality incorporated by fair procedures. Yet, proceduralism does not imply that every outcome of a democratic procedure is fair per se. In the non-ideal setting of constitutional democracies, government and legislative decisions may result from factional conflicts, or depend on majoritarian dictatorships. In these circumstances, Supreme Courts provide a guardianship against contested outcomes by enacting mechanisms of checks and balance, constitutional interpretation, and judicial review. Yet, in virtue of this role, Supreme Courts exercise a form of epistocratic power, which rests at odds with the ideal of political equality. We analyse this dilemma and propose a solution, arguing that Supreme Courts do not run unrestrained decisions; rather their decisional power is bound to the protective function of fundamental rights, in which their constitutional mandate ultimately consists.

Between Inclusion and Garbage Time Politics: An Epistemic Reading of the Democratic Deficit in the EU
Corrado Fumagali (corrado.fumagalli@unimi.it)
AbstractA basic definition of the democratic deficit in the EU describes the partial influence of the addressees of decisions taken by the EU governing bodies on the contents of those decisions. There is a plethora of arguments for and against the democratic deficit in the EU. This paper explores the democratic deficit under epistemic lenses. By drawing upon the experimentalist model of democracy (Dewey 1976, Anderson 2006), I argue that a study of legitimacy in the EU may be grounded on the constructive function of deliberation and upon its knowledgeproducing capacity. In the EU, the growth of an international and vibrant epistemic community, together with the constitution of an international economic diplomacy, exchange of ideas and knowledge between decision-makers as well an expanding network of INGOs, CSOs and thinktanks could consolidate a Platonic democracy of the knowers through deliberation. In the past few years, however, politicians, citizens and scholars (Estlund 1995 2003, Hong and Page 2004) have raised compelling arguments against what they call epistocracy, i.e. the idea that those who know better are, at least in principle, best fit to govern. In the EU, I argue, there are instruments, skills and human resources for benefitting from situated knowledge and pluralism in the Union. However, since the policy discourse is accessible only for actors and organizations that are accustomed with Brussels-based deliberations, policy options are limited and a great deal of evidence stays at the margins. In this paper, I explore this claim on purely epistemic grounds by looking at the construction of the EU position for COP 21. An epistemic point of view helps me think of social and political actors in the light of the additional evidence they actually bring in the decision-making procedure, without considering strategies and means through which they advance their claims to the others. According to this purely external standard, as I will show, democracy in the EU is legitimate when it brings together all social groups, as potential sources of evidence, in the decision-making procedure. In so doing, I try to answer two questions: (1) to what extent does the EU include all social groups in its deliberative process? (2) If the answer to (1) is: “to a very limited extent”, what is the price to be paid for such exclusion? From my analysis, deliberation excludes radical activists, dissenters, vernacular and local knowledge. These actors take part in the game only toward the end, when the outcome has already been decided (garbage-time). Exclusion, however, comes at a very high price for legitimacy in the Union. Excluded actors capitalize their epistemic import against policy solutions from Brussels and within the politics of member states (MS), where they can network easily with one another. In MS, exclusion encourages suspicion towards the EU as a legitimate authority and inspires resentment against technocrats in Brussels. All things considered, a reading of the decisionmaking procedure through the lenses of the experimentalist model of democracy corroborates the thesis of the democratic deficit, regardless of the huge know-how, pluralism, difference, knowledge and expertise inside and outside European institutions. This paper proceeds as follows. The first section introduces the debate on the democratic deficit in the EU, revealing the range of problems that the EU may exhibit, including lack of representation and participation of the affected members as well as their resulting resentment. I then introduce epistemic theories as alternative strategies to assess the legitimacy of democratic politics in the EU. In section 3, I study the available options in the spectrum of epistemic defences of democracy: the experimentalist model, I argue, is the one that suits most the specific components of the EU. This brings me to develop the model into detail, making conditions, requirements and goals explicit. The fourth and fifth sections apply the approach to the decision-making procedure that brought to ratify the EU position for COP 21. Integrating a range of elements form the literature on climate change civil society organizations with what happened after September 2015, I explore whether the decision-making procedure of the EU satisfies the requirements of an experimentalist model of democracy. In section 6, I discuss the implications of my observations.

 
 
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