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Section 7. Amministrazione e politiche pubbliche (Administration and Public Policy)

Chairs: Andrea Lippi, Federico Toth

In Italia, gli ultimi due anni di governo sono stati caratterizzati da un’intensa stagione di politiche annunciate come fortemente innovative e orientate alla trasformazione di interi settori di policy. I processi decisionali che hanno condotto a tali riforme sembrano avere seguito – almeno in larga misura – un pattern comune, ammantato dalla retorica della concretezza e del radicale “cambio di direzione” rispetto al passato. Ciò ha riguardato alcuni settori di policy in particolare, ma ancor più il metodo, lo stile e le modalità di comunicazione e costruzione del consenso da parte del governo.
La natura, gli attori, le strategie e gli esiti di questa stagione riformistica possono essere esaminati nel loro complesso, oppure con particolare riguardo a un singolo settore d’intervento. Alcuni settori di policy sono stati infatti oggetto di particolare attenzione da parte del governo Renzi, e per questo costituiscono – per gli studiosi di policy – un campo di analisi particolarmente ricco. Il riferimento è non solo alle note riforme del lavoro (il Jobs Act) o dell’istruzione (la Buona Scuola), ma anche alle politiche costituenti come le riforme costituzionali, la riforma delle province, quella del Senato; per arrivare ai c.d. decreti Madia che ambiscono a trasformare interi comparti dell’amministrazione pubblica, i servizi pubblici e le società partecipate, incluso i rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici; a queste si potrebbero poi aggiungere le proposte di riforma più dense di significati simbolici, come quella riguardante le unioni civili.
I panel (o eventuali tavole rotonde) che intendano seguire questa traccia possono dunque essere incentrati sul policy making nazionale – applicando i criteri e i concetti dell’analisi delle politiche pubbliche all’azione del governo Renzi, con particolare attenzione ai temi della comunicazione, del decision making e della valutazione dell’impatto – oppure su specifici settori di policy, cercando di approfondire e discutere gli elementi di criticità e le evidenze empiriche connesse alla recente stagione di riforme.
 

Panel 7.1 Corruzione, amministrazione, e politiche pubbliche (I)


La corruzione appartiene a quella classe di fenomeni sociali che permette più di una lettura. A seconda dei periodi storici e dei contesti, viene rappresentata come il grimaldello per promuovere imprenditività e competizione in sistemi bloccati dal controllo politico oppure, viceversa, come il meccanismo che permette a pochi di estrarre vantaggi indebiti distorcendo il funzionamento di mercati altrimenti efficienti, con ricadute perverse sulle strategie di tutti gli attori e quindi sulla qualità complessiva del sistema. Il fenomeno mette comunque a nudo il collegamento strutturale tra sistema politico e sistema economico. Gli imprenditori si muovono in un contesto di regole, tasse, e spesa pubblica definito dai decisori politici; i decisori restano tali o decadono in rapporto al consenso che riescono a mobilitare attraverso l'uso che fanno di regole, tasse, e spesa pubblica. La tentazione di trovare accordi reciprocamente vantaggiosi appare quasi ineliminabile; una volta innescato, il meccanismo sembra inoltre pervasivo e poco reversibile.
Per i cinici, la corruzione dovrebbe essere quindi caratteristica comune e diffusa: eppure esistono sistemi politici più immuni di altri. Molte sono le ragioni richiamate per giustificare queste differenze. Le più note si concentrano sui diversi tipi di capitale economico, sociale e culturale di cui sono dotati gli elettori; sugli incentivi istituzionali ai candidati; sulla presenza attiva di mediatori e imprenditori della corruzione; sulla frammentazione o centralizzazione del sistema decisionale. Un diverso filone ha sottolineato la capacità delle burocrazie di disinnescare il meccanismo corruttivo quanto di istituzionalizzarlo a seconda del modello amministrativo in vigore e, quindi, degli incentivi a cui sono sottoposte. L'attenzione per vincoli e incentivi è condivisa dalle analisi sulle norme disegnate per aumentare i costi della corruzione e le probabilità che lo scambio venga alla luce. Qui l’interesse si sposta esplicitamente sui fattori che possono disinnescare o prevenire la corruzione: sistemi di accountability dei decisori; contenuti e enforcement delle norme anticorruzione; caratteristiche dei sistemi di indagine.
Le diverse spiegazioni appaiono tutte ragionevoli, ma nessuna robusta al punto da non essere contraddetta da una qualche eccezione. Il dibattito è alimentato anche dalla complessità di un fenomeno che sfugge alla misurazione diretta, e di cui esistono molteplici definizioni e stime — ciascuna a sua volta suscettibile di critica. Il riferimento alle norme esige un consenso attorno a un singolo metro di valutazione normativo a cui si possono opporre ragioni di viabilità e di cultura; il confine tra prassi corruttive e prassi pluraliste può essere labile; l'inefficienza del governo può indicare sia corruzione, sia l'assenza di competenze; la percezione degli osservatori può essere inficiata da valori e contingenze. Ciascuna di queste stime peraltro costruisce un diverso ordine tra i casi, e punta a problemi e soluzioni diverse.
Qualunque sia la stima utilizzata, però, il caso italiano si posiziona sempre a distanza dai paesi virtuosi. Le analisi hanno anzi sottolineato come le dinamiche corruttive — nei diversi rapporti tra elettori e eletti, tra politica e amministrazione, tra amministrazione e destinatari, tra decisori e controllori — presentino qui aspetti intensi e pervasivi, spesso definiti “sistemici”. Quello italiano assurge dunque a caso esemplare, in cui la magnitudo del fenomeno permette di esaminare in dettaglio i meccanismi della corruzione all'opera in paesi liberal-democratici con un’economia avanzata — e verificare o raffinare le ipotesi sulla loro riproduzione o disinnesco.
Il panel sollecita una riflessione su questi diversi aspetti, chiedendo:
(1) come possiamo misurare la corruzione, e quali distorsioni le diverse stime generano nella rappresentazione del fenomeno?
(2) quali spiegazioni della corruzione come fenomeno politico-amministrativo permettono una migliore comprensione del meccanismo, e che soluzioni suggeriscono?
(3) a che punto sono le politiche anticorruzione nel sistema italiano, e che aspettative possiamo avere riguardo ai loro effetti?
Contributi teorici e empirici sono egualmente benvenuti — i secondi, indipendentemente dal metodo utilizzato, e dalla numerosità dei casi trattati.

Chairs: Alessia Damonte, Antonio La Spina, Alberto Vannucci

I mass media e la denuncia della corruzione: verso una tipologia del ruolo del giornalista nei casi di corruzione.
Roberto Mincigrucci (robertomincigrucci@hotmail.it)
AbstractIl paper, legato alla partecipazione al WP 6, Media and Corruption, del progetto ANTICORRP – “Anticorruption Policies Revised. Global Trends and European Responses to the Challenge of Corruption” finanziato nell’ambito del VII Programma Quadro dell’Unione Europea, mira a evidenziare il ruolo giocato dai giornalisti italiani nei casi corruzione. Il presupposto di partenza è che il giornalista sia un attore fondamentale per contrastare la diffusione della corruzione. Molte ricerche mettono in evidenza come un sistema dei media libero ed indipendente sia in grado di ostacolare il protrarsi di fenomeni corruttivi (Brunetti, Weder 2003; Chowdhury 2004; Worthy, McClean 2015). Queste ricerche però danno per scontato che il ruolo del giornalista sia positivo, che svolga sempre la funzione di “guardiano” in grado di indagare e denunciare comportamenti illeciti e fungere da deterrente per il protrarsi di episodi di malaffare. In realtà, il rapporto tra giornalisti e corruzione è molto più complesso e problematico: in alcune situazioni il giornalista svolge effettivamente un ruolo positivo, raccontando o a volte scoprendo uno scandalo, talvolta può capitare però, anche nel nostro paese, che i giornalisti siano coinvolti direttamente in casi di corruzione, risultino parte integrante del network corruttivo, rivestendo quindi un ruolo negativo. Partendo dall’analisi di alcuni casi studio (Bisignani, Calciopoli, Fini e la villa di Montecarlo, Renato Farina), l’ipotesi che si intende indagare è che l’azione del giornalista nei casi di corruzione è strettamente collegata alle caratteristiche salienti del nostro sistema dell’informazione (parallelismo politico, strumentalizzazione, editoria impura ecc.). La propensione del giornalista a condurre un’inchiesta e scoprire uno scandalo o la sua vulnerabilità ad un comportamento corruttivo sono riconducibili alle particolarità del sistema dei media italiani. L’obiettivo del paper pertanto è quello di proporre quattro tipologie in grado di illustrare il ruolo dei giornalisti di fronte a casi di corruzione. Le prime due tipologie riguardano i ruoli positivi: 1) Enforcer/Initiator, giornalisti che scoprono il caso o ne parlano per primi sui mezzi di informazione; 2) Reporter/Facilitator, i giornalisti che pur non essendo coloro che hanno scoperto il caso decidono di seguirlo e approfondirlo, fornendo dettagli ulteriori e interpretazioni. Dall’altra parte i ruoli negativi: 3) Actively corrupt/ Collaborator, i giornalisti sono parte del network corruttivo, concedendo favori nell’esercizio del proprio mestiere, in cambio di benefici personali; 4) Inactive/Lazy giornalisti che pur non ottenendo vantaggi personali sottostimano l’importanza del caso e decidono di non trattarlo nei propri articoli.

La copertura giornalistica della corruzione. Democrazie consolidate e “nuove democrazie” a confronto.
Rita Marchetti (rita.marchetti@h24net.it), Paolo Mancini (paolo.mancini@unipg.it), Marco Mazzoni (marco.mazzoni@unipg.it)
AbstractIl paper presenta un’analisi della copertura giornalistica della corruzione in sette paesi europei (Italia, Francia, Gran Bretagna, Romania, Ungheria, Slovacchia e Lettonia) nel periodo 2004-2013. L’indagine, realizzata all’interno di un progetto di ricerca finanziato nell’ambito del VII Framework Programme dell’Unione europea, ha preso in considerazione per ciascun paese quattro giornali di diversa natura (quotidiani d’élite, popolari ed economici) e di diverso orientamento politico (centro sinistra, centro destra). Gli articoli sono stati selezionati attraverso la presenza di nove parole-chiave che dovevano essere presenti nel testo o nel titolo dell’articolo: corruzione, tangente, concussione, mazzetta, peculato, clientelismo, collusione, nepotismo, familismo, favoritismo. Tramite una scheda d’analisi del contenuto appositamente predisposta è stato analizzato un campione degli articoli raccolti (12.742 su un totale di 183.941) con l’obiettivo di indagare lo specifico topic oggetto dell’articolo, le fonti utilizzate dal giornalista, il modo in cui il giornalista ha coperto temi legati alla corruzione e quali gli ambiti connessi al tema della corruzione. Le diverse rappresentazioni del tema della corruzione che emergono dall’analisi sembrano essere collegate a particolari situazioni, casi e eventi che si verificano in ogni paese: i giornali analizzati rispecchiano le condizioni sociali, culturali e politiche specifiche e si differenziano in modo significativo paese per paese. Il paese è la variabile principale che stabilisce diverse rappresentazioni di corruzione dovute sia a culture politiche nazionali simili sia a comuni modelli professionali di giornalismo. Due gruppi di paesi sembrano emergere abbastanza chiaramente. Da un lato, si collocano due consolidate democrazie dell’Europa occidentale, la Gran Bretagna e la Francia dove il tema della corruzione è trattato soprattutto in relazione al mondo del business e dello sport. I giornali francesi e inglesi trattano soprattutto casi di corruzione che avvengono all’estero. D’altro lato, anche se ci sono significative differenze tra loro, si posizionano quelle che potrebbero essere chiamate “nuove democrazie” dell’Europa centro-orientale (Ungheria, Romania, Slovacchia) e l’Italia, che presenta diverse caratteristiche nel coverage della corruzione simili a quelle registrate nel coverage nelle democrazie dell’Europa centro orientale. In questo secondo gruppo di paesi, il tipo di corruzione trattata negli articoli ha luogo all’interno dei confini nazionali e riguarda soprattutto l’ambito politico e quello della pubblica amministrazione.

Instruments, Mechanisms and Outcomes: Regulatory Accountability and Corruption
Claudio Radaelli (c.radaelli@ex.ac.uk), Alessia Damonte (alessia.damonte@unimi.it), Claire A Dunlop (C.A.Dunlop@exeter.ac.uk)
AbstractTo explain corruption, dominant theories have focused on an array of ‘remote factors’ related to the political market, the economic, cultural and social capital, and institutions. The mechanisms linking these remote factors to corruption are plausible, but the chain of causation is long. Unsurprisingly then, empirical projects have produced contradictory evidence. In this conceptual contribution, we start from the simple observation that corruption in the public sector mainly occurs when a bureaucrat interacts with a firm or a citizen. Specifically, we focus on an important moment of this interaction: the administrative-procedural dimension of rulemaking. We then theorize the social mechanism that procedural regulatory policy instruments activate. This mechanism is preference internalization. We explain how regulatory accountability hinders corruption via preference internalization. It is the mix or combination of procedural regulatory policy instruments that hinders corruption, with more than one pathway leading to the outcome (equifinality). To test our claims about mechanisms, the ecology of policy instruments and equifinality we need to align methodology and ontology, and for this reason we conclude by making suggestions for empirical tests of our claims based on qualitative comparative analysis.

 

Panel 7.1 Corruzione, amministrazione, e politiche pubbliche (II)


La corruzione appartiene a quella classe di fenomeni sociali che permette più di una lettura. A seconda dei periodi storici e dei contesti, viene rappresentata come il grimaldello per promuovere imprenditività e competizione in sistemi bloccati dal controllo politico oppure, viceversa, come il meccanismo che permette a pochi di estrarre vantaggi indebiti distorcendo il funzionamento di mercati altrimenti efficienti, con ricadute perverse sulle strategie di tutti gli attori e quindi sulla qualità complessiva del sistema. Il fenomeno mette comunque a nudo il collegamento strutturale tra sistema politico e sistema economico. Gli imprenditori si muovono in un contesto di regole, tasse, e spesa pubblica definito dai decisori politici; i decisori restano tali o decadono in rapporto al consenso che riescono a mobilitare attraverso l'uso che fanno di regole, tasse, e spesa pubblica. La tentazione di trovare accordi reciprocamente vantaggiosi appare quasi ineliminabile; una volta innescato, il meccanismo sembra inoltre pervasivo e poco reversibile.
Per i cinici, la corruzione dovrebbe essere quindi caratteristica comune e diffusa: eppure esistono sistemi politici più immuni di altri. Molte sono le ragioni richiamate per giustificare queste differenze. Le più note si concentrano sui diversi tipi di capitale economico, sociale e culturale di cui sono dotati gli elettori; sugli incentivi istituzionali ai candidati; sulla presenza attiva di mediatori e imprenditori della corruzione; sulla frammentazione o centralizzazione del sistema decisionale. Un diverso filone ha sottolineato la capacità delle burocrazie di disinnescare il meccanismo corruttivo quanto di istituzionalizzarlo a seconda del modello amministrativo in vigore e, quindi, degli incentivi a cui sono sottoposte. L'attenzione per vincoli e incentivi è condivisa dalle analisi sulle norme disegnate per aumentare i costi della corruzione e le probabilità che lo scambio venga alla luce. Qui l’interesse si sposta esplicitamente sui fattori che possono disinnescare o prevenire la corruzione: sistemi di accountability dei decisori; contenuti e enforcement delle norme anticorruzione; caratteristiche dei sistemi di indagine.
Le diverse spiegazioni appaiono tutte ragionevoli, ma nessuna robusta al punto da non essere contraddetta da una qualche eccezione. Il dibattito è alimentato anche dalla complessità di un fenomeno che sfugge alla misurazione diretta, e di cui esistono molteplici definizioni e stime — ciascuna a sua volta suscettibile di critica. Il riferimento alle norme esige un consenso attorno a un singolo metro di valutazione normativo a cui si possono opporre ragioni di viabilità e di cultura; il confine tra prassi corruttive e prassi pluraliste può essere labile; l'inefficienza del governo può indicare sia corruzione, sia l'assenza di competenze; la percezione degli osservatori può essere inficiata da valori e contingenze. Ciascuna di queste stime peraltro costruisce un diverso ordine tra i casi, e punta a problemi e soluzioni diverse.
Qualunque sia la stima utilizzata, però, il caso italiano si posiziona sempre a distanza dai paesi virtuosi. Le analisi hanno anzi sottolineato come le dinamiche corruttive — nei diversi rapporti tra elettori e eletti, tra politica e amministrazione, tra amministrazione e destinatari, tra decisori e controllori — presentino qui aspetti intensi e pervasivi, spesso definiti “sistemici”. Quello italiano assurge dunque a caso esemplare, in cui la magnitudo del fenomeno permette di esaminare in dettaglio i meccanismi della corruzione all'opera in paesi liberal-democratici con un’economia avanzata — e verificare o raffinare le ipotesi sulla loro riproduzione o disinnesco.
Il panel sollecita una riflessione su questi diversi aspetti, chiedendo:
(1) come possiamo misurare la corruzione, e quali distorsioni le diverse stime generano nella rappresentazione del fenomeno?
(2) quali spiegazioni della corruzione come fenomeno politico-amministrativo permettono una migliore comprensione del meccanismo, e che soluzioni suggeriscono?
(3) a che punto sono le politiche anticorruzione nel sistema italiano, e che aspettative possiamo avere riguardo ai loro effetti?
Contributi teorici e empirici sono egualmente benvenuti — i secondi, indipendentemente dal metodo utilizzato, e dalla numerosità dei casi trattati.

Chairs: Alessia Damonte, Antonio La Spina, Alberto Vannucci

Prosecuting high-level political corruption in Italy. Mapping investigations from 2008 to 2013.
cristina dallara (cristina.dallara@irsig.cnr.it)
AbstractWhile a growing body of research examines the causes and consequences of corruption, using sociological, economic, political and anthropological approaches, less has been written about the institutions and the judicial procedures used to tackle high-level political corruption. For this reason, we propose to shift the attention from the causes and effects of corruption to the state’s attempts to curb it through criminal prosecution. Until now, no systematic studies have been specifically developed on high-level corruption prosecution and very few and reliable information are available on the amount of high-level political actors investigation, on the timing of such investigations and on the amount of indictments for political corruption crimes. We believe that shedding light on the prosecution side could offer relevant information for studying corruption more broadly. As an example, a pilot study focusing on the prosecution of cabinet ministers in Eastern and Southern Europe (Popova and Post 2013) has generated some hypotheses about those factors that could be associated with a higher probability of investigation for corruption charges. With this paper, we propose a pilot study mapping the prosecution of cabinet ministers (and deputy ministers) in Italy form 2008 to 2013, using media sources. Our goal is to map out the entire corruption prosecution process, from the appearance of the first allegations to the opening of a formal investigation, to the filing of an indictment by the public prosecution, and finally to the court proceedings during a trial. The aim of the paper is to assess some hypotheses developed in the literature on political corruption, concerning factors that could be associated with a higher probability of indictment on corruption charges, such as: type of ministerial portfolios, affiliation to a strong/weak party and timing of investigative action (before/during/after tenure).

Social network e comunicazione online per l’anticorruzione e la trasparenza: una messa a sistema virtuosa in un’ottica di contenimento dei costi
marco laudonio (marco.laudonio@uniroma1.it)
AbstractLe misure anticorruzione introdotte a partire dalla legge n. 190/2012, hanno imposto alle pubbliche amministrazioni, centrali e locali, una serie di iniziative che, negli ultimi quattro anni, hanno determinato un'evidente trasformazione della comunicazione online, in un'ottica di maggiore trasparenza. Proprio la trasparenza amministrativa diventa così lo strumento più efficace per consentire il controllo sociale sull’operato delle pubbliche amministrazioni, così da prevenire e contrastare i fenomeni di illegalità e di corruzione, avvicinando istituzioni e cittadini: la garanzia di pubblicità di dati e informazioni può consentire a chiunque di esercitare il controllo sull’andamento e sulla gestione delle funzioni pubbliche, secondo un principio di trasparenza che si richiama al concetto di “accessibilità totale” ai dati e alle informazioni. Tuttavia, far percepire ai cittadini e all’opinione pubblica la trasparenza come un valore fondante dell’amministrazione pubblica, e non solo come un mero obbligo di legge, non è semplice. Il diritto del cittadino alla trasparenza richiede lavoro all’amministrazione e tale lavoro deve essere quantificato, così da capire quali investimenti siano necessari per applicare in pieno una logica di accountability nell’elaborazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità (strumento previsto dall’art. 10 del d.lgs. n. 33 del 2013 che ha considerato la trasparenza come parte integrante dell’attività di prevenzione della corruzione). In questa prospettiva la modernità delle funzioni di comunicazione online può essere compresa immaginando quella che era la messa nel rito tridentino: una funzione in latino, con il sacerdote che dava le spalle alle persone, con il tabernacolo aperto solo per lui. Le parole come formule incomprensibili se non a un circolo di ottimati. La sfida dell’anticorruzione nella Pubblica Amministrazione è invece quella dell’adozione da parte della macchina amministrativa di una “cultura della condivisione”. A tal fine i social network sono uno strumento con grandi potenzialità, che è possibile gestire con disponibilità finanziarie ridotte, sia per illustrare ai cittadini la documentazione pubblicata sui siti istituzionali, oltre che materiali divulgativi, utili a costruire nella sfera pubblica online una cultura condivisa tra i diversi attori, sia per veicolare tra diversi soggetti istituzionali le attività intraprese così da eventualmente adottarle su larga scala. Il conference paper proposto vuole offrire sia un contributo empirico sia un contributo teorico. Sul piano empirico intende illustrare il monitoraggio ideato in seno al “gruppo di supporto al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza” del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Il monitoraggio è stato adottato dal maggio 2015 per rilevare le attività online sviluppate in applicazione delle norme. Si è dapprima ipotizzata una classificazione dei contenuti in diverse categorie riconducibili a due grandi aree: la prima costituita dall’attività di elaborazione ulteriore delle informazioni pubblicate, così da dare un “valore aggiunto” e facilitare la comprensione dello spirito delle norme (ad esempio realizzando dei testi esplicativi a corredo dei documenti o inserendo testi che illustrano i riferimenti normativi); la seconda area relativa alla pubblicazione di aggiornamenti di documenti e database richiesti come adempimenti di legge. Detta classificazione, assieme alla rilevazione quantitativa degli aggiornamenti pubblicati e al censimento delle nuove pagine web che si è deciso di aprire per offrire un approfondimento maggiore, è stata ritenuta attività propedeutica alla stima delle risorse umane e finanziarie necessarie ad adempiere agli obblighi di trasparenza previsti. Il contributo presenterà perciò i dati misurati e classificati grazie all’attività di monitoraggio degli aggiornamenti online della sezione amministrazione trasparente del sito del MEF www.mef.gov.it . Sul piano teorico, infine, si vuole illustrare come, su invito dell’Autorità Nazionale AntiCorruzione (ANAC), si è individuata una possibile declinazione sui social media delle attività di comunicazione dell’amministrazione trasparente, definendo le proposte attraverso un confronto a livello nazionale con i soggetti responsabili dell’applicazione delle norme (i responsabili dell’anticorruzione e della trasparenza), la maggior parte dei quali non ha né una preparazione specifica legata alla comunicazione, né un budget dedicato. L’essere fonte primaria di dati, messi a disposizione di tutti e non esclusivamente per l’attività giornalistica, permette infatti di veder riconosciuta un’autorevolezza altrimenti irraggiungibile sui social network sites ma richiede alla pubblica amministrazione la pianificazione di alcune attività, che possono essere mutuate dalle pratiche redazionali giornalistiche, così da entrare in contatto con un pubblico potenzialmente vastissimo.

 

Panel 7.2 Politica e banche centrali


A partire dalla crisi finanziaria iniziata nel 2007 le banche centrali hanno assunto un ruolo fondamentale nei processi di policy-making relativi alla gestione della crisi e della sua risoluzione.
In alcuni casi esse hanno “compensato” lacune e ritardi degli interventi degli attori politici; in altri hanno integrato il loro operato.
Il panel si propone di discutere contributi che si propongano di analizzare il ruolo delle banche centrali nella politica e nella società dei paesi avanzati e in via di sviluppo.
In particolare, si sollecita la submission di contributi afferenti le seguenti tematiche:
- Il rapporto tra le banche centrali e policy-makers;
- L’evoluzione politico-istituzionale delle banche centrali;
- Il coordinamento internazionale tra autorità monetarie;

- L’efficacia degli strumenti di policy convenzionali e non convenzionali.


Chairs: Giampiero Cama, Manuela Moschella

Discussants: Fabio Franchino

Armi spuntate? Banche centrali e politiche monetarie nell'era della finanza globale
Luca Lanzalaco (lanzalaco@unimc.it)
AbstractArmi spuntate? Banche centrali e politiche monetarie nellera della finanza globale Luca Lanzalaco (Università di Macerata) Abstract Il paradosso delle banche centrali” sta diventando sempre più evidente. Da un lato, si afferma la centralità del loro ruolo politico a livello nazionale e internazionale soprattutto dopo la crisi che a partire dal 2008 ha colpito le principali economie. Dallaltro lato, viene sottolineata con sempre maggiore insistenza la loro impotenza, questo è il termine che ricorre con maggiore frequenza, prima per non aver saputo prevedere e prevenire la crisi finanziaria e, successivamente, per la loro incapacità di intervenire in modo efficace per stimolare la crescita, sostenere loccupazione, incrementare linflazione e garantire la stabilità dei mercati valutari e finanziari. Il paper si propone di spiegare questo apparente paradosso, evidenziando come sia la salienza politica delle banche centrali che la loro scarsa policy capability, non solo non siano in contraddizione tra loro, ma siano entrambe radicate nei cambiamenti intervenuti nei rapporti tra sfera economica e sfera politica in seguito ai processi di finanziarizzazione e globalizzazione del capitalismo. .

Negotiating Greece Origins and evolution of the ECB’s, the European Commission’s and the IMF’s preferences
Manuela Moschella (manuela.moschella@sns.it)
AbstractThe paper sets out to explain why the ECB and the European Commission relaxed their opposition to changes in the adjustment strategy for Greece in the shift from the first to second adjustment program. Using the findings of the empirical analysis, the paper shows that EU institutions’ repositioning cannot easily be ascribed to the mechanisms that are typically at play in international negotiations, namely exogenous pressures and persuasion. Instead, this paper argues that a more nuanced and complete explanation of the relaxation of opposition to the change in the program strategy requires taking into account the institutional and temporal dimensions of the Troika negotiations. Specifically, the paper shows that the evolution of European actors’ preferences was shaped by the layering of new rules into the machinery of the monetary union. This layering allowed political actors achieving their preferences under changed external circumstances.

Le banche centrali dopo la crisi. Riflessi politici del ruolo di prestatore di ultima istanza
Giampiero Cama (gcama@unige.it)
AbstractCome già successo nella storia, le crisi finanziarie enfatizzano le responsabilità e l’esposizione politica delle banche centrali. Ciò accade tanto all’interno di ciascun sistema politico quanto nell’arena internazionale. La specifica competenza tecnica dei banchieri sta ovviamente alla base di tale fenomeno. Altre ragioni sono invece contingenti e rimandano alle particolari condizioni politico-istituzionali di ogni particolare periodo. Questo è a nostro avviso vero in questa fase per l’Unione Europea e la sua banca centrale (BCE). Abbiamo infatti assistito in questi ultimi anni ad un crescente ruolo politico delle BCE e del suo presidente, Mario Draghi. L’aspetto più sorprendente di questa evoluzione è stato il progressivo smarcamento, attraverso scelte di policy autonome, coraggiose, non sempre in linea con una rigida ortodossia monetarista, rispetto all’ipoteca tedesca nel board della banca. L’aver messo più volte in minoranza nelle votazioni del Comitato Direttivo della BCE il rappresentante della Bundersbank rappresenta il segnale più vistoso e clamoroso di questa svolta. In questo paper analizziamo due aspetti distinti di questo protagonismo politico della BCE. Da un lato, esamineremo il gioco politico di alleanze che ha concesso a Mario Draghi margini di manovra e discrezionalità impensabili se si fa riferimento all’impostazione originaria definita dai trattati europei per la politica monetaria e la BCE. Dall’altro illustreremo una importante implicazione, in termini di potere, del ruolo di prestatore di ultima istanza rivestito, sulla scia della emergenza legata ai debiti sovrani di alcuni paesi europei, dalla BCE: la realizzazione, di fatto, di una politica distributiva tra gli stati membri dell’Unione Europea.

Le determinanti della politica monetaria: la banca centrale come attore non unitario
Sara Rocchi (sara.rocchi@sns.it)
AbstractLa crisi finanziaria scoppiata nell'estate del 2007 ha acceso i riflettori sulla politica monetaria, divenuta protagonista della strategia di risposta alla crisi. Soprattutto in Europa, dove stretti vincoli di bilancio hanno impedito la conduzione di politiche fiscali particolarmente espansive, la politica monetaria ha giocato un ruolo decisivo non solo nella stabilizzazione del sistema finanziario, ma anche nella promozione di crescita e occupazione. Dato l'importante ruolo macroeconomico della politica monetaria è importante comprendere quali siano le determinanti delle scelte compiute. Nel paper si discuterà l'ipotesi che le banche centrali non siano attori unitari e che le decisioni di politica monetaria siano la risultante dell'interazione tra i diversi elementi istituzionali che le compongono

 

Panel 7.3 I sistemi di governance orientati alla performance tra esigenze di efficienza e equità sociale


Migliorare il rendimento delle istituzioni a costi inferiori è stata, a partire dagli anni novanta del secolo scorso, una finalità dei governi italiani di tutte le persuasioni politiche —almeno nella retorica adottata. La riforma dello Stato ha puntato sul decentramento, sulla verifica della qualità dei servizi pubblici e sul rafforzamento della responsabilità per i risultati ottenuti nei confronti dei cittadini, facendo ricorso a nuovi metodi e tecniche di management pubblico per ristrutturare i processi amministrativi ai vari livelli di giurisdizione.
I principi del New Public Management (NPM) hanno ispirato la logica delle riforme introdotte, descritte e comparate, ma raramente valutate in termini di impatto sulle pratiche amministrative e sul benessere dei cittadini. Come accaduto in paesi anche più avanzati sul fronte delle riforme in stile NPM, l’esigenza di conoscere gli effetti attesi e inattesi delle iniziative di cambiamento amministrativo non è stata seriamente affrontata e piuttosto che esplorare i complessi funzionamenti organizzativi e istituzionali si è preferito soggiacere alla mera retorica politica (Pollitt 1995; Pollitt e Bouckaert 2004; Boyne et al. 2003: 2).
Negli ultimi dieci anni, inoltre, la sperimentazione dei sistemi di governance orientati alla performance ha dato vita a forme di coordinamento dall’alto e processi di ri-centralizzazione che secondo alcuni hanno ormai superato il tipico impianto NPM (Christensen and Laegreid, 2007; Christensen, 2011: 142; Hajnal e Rosta, 2015; Woelert, 2015). La proliferazione di meccanismi di governance ancorati alle performance è stata motivata non solo dalla necessità di aumentare l’efficienza e rafforzare l’accountability, ma anche dalle intenzioni del governo centrale di orientare l’azione amministrativa verso il raggiungimento di obiettivi strategici di livello nazionale.
Dall’università alla scuola, dalla sanità allo sviluppo regionale, in Italia, unitamente ai tagli di bilancio per contenere la spesa pubblica sono stati imposti anche standard nazionali da raggiungere annualmente. In risposta alle pressioni dell’Unione europea per il consolidamento dei conti pubblici, la razionalizzazione della spesa ha operato attraverso meccanismi automatici di contenimento del costo del lavoro e dell’organico (Marra, 2010, 2013). Le riforme orientate al decentramento (leggi Bassanini) e al rafforzamento della capacità istituzionale locale (ascrivibili al place-based approach di Barca, 2009) hanno ceduto il passo alle riduzioni nell’impiego pubblico, approvate senza strenue opposizioni sindacali in ossequio agli impegni assunti in sede europea per contenere la spesa e sostenere l’euro contro gli attacchi speculativi della finanza globale. Tuttavia, l’apparente centralismo nostrano non si risolve esclusivamente nelle operazioni di downsizing che anche gli altri paesi del Sud Europa hanno realizzato (Ongaro, 2009; Lodge e Hood, 2012; Marra, 2013). Esso è anche e soprattutto la risposta del governo centrale alle debolezze dei sistemi amministrativi locali, in cui inefficienza, sprechi, clientelismo e corruzione rivelano preoccupanti legami con la criminalità organizzata.
In tale contesto, i sistemi di valutazione e misurazione delle performance hanno cominciato ad operare sia all’interno di specifici comparti sia ai vari livelli di governo. Hanno istituzionalizzato metodi e organizzazioni differenti con una missione di valutazione sia dei programmi che dei rendimenti amministrativi. Alla fine degli anni novanta, vengono creati i nuclei di valutazione nell’ambito delle regioni (L. 144/99), coordinati dall’unità di valutazione del Dipartimento di Coesione e Sviluppo con l’obiettivo di misurare l’impatto dei programmi cofinanziati dai Fondi Strutturali. Coevi sono i nuclei di valutazione degli atenei (L. 387/99), mentre bisogna attendere il 2004 (con il Dlgs. 286) per il riordino del già esistente Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo e di Istruzione (Invalsi) con funzioni precipuamente valutative. Nel 2006, la legge 24 istituisce l’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (Anvur), i cui regolamenti di attuazione intervengono solo successivamente nel 2011. A partire dal 2010, con la riforma Brunetta (Dlgs. 150/09) vengono creati gli Organismi Indipendenti di Valutazione (OIV) presso comuni, regioni, aziende sanitarie locali, agenzie per la protezione ambientale, autorità di bacino con l’obiettivo di verificare il rendimento delle amministrazioni e il contributo dei dirigenti e dei dipendenti al raggiungimento degli obiettivi strategici annuali. Questo è un processo tuttora in corso e su cui la recentissima Riforma Madia interviene modificando le modalità di coordinamento centrale.
Un crescente filone di studi sulla governance ha ricostruito le logiche di funzionamento dei sistemi di misurazione delle performance, mettendone in evidenza gli aspetti perversi. Pollitt (2013: 347) parla, a tal proposito, di dinamiche ‘alternative’ che smentiscono la presunta logica razionale per mostrare, invece — come ad esempio nella ‘logica dell’escalation’— gli effetti controproducenti dell’adozione massiccia di indicatori quantitativi senza alcuna attenzione all’eterogeneità territoriale e alle esigenze di equità. E proprio sulle logiche alternative dei sistemi di misurazione delle performance, introdotti nei cosiddetti paesi ‘neo-liberali’ come il Regno Unito e l’Australia, Woelert (2015) punta l’attenzione, scorgendone una ‘paradossale’ somiglianza rispetto alle modalità di pianificazione dei regimi dell’Est (Bevan & Hood, 2006; Hood, 2006 in Woelert, 2015). Non sorprende, quindi, se, in Italia, la valutazione — normalmente vissuta come un mero adempimento burocratico — è stata recentemente tacciata di avallare una tecnocratica standardizzazione culturale, una pervasiva forma di statalismo e di centralismo amministrativo che, in nome della lotta alla corruzione e agli sprechi, come dispositivo di sorveglianza (Foucault, 1977), riduce gli spazi delle decisioni e l’autonomia amministrativa a livello locale. A partire dal mondo dell’università, il tema controverso è più la storica carenza di valutazione, quanto piuttosto l’eccesso di valutazione. Si tratta di una valutazione ‘cattiva’, che come la moneta cattiva scaccia la moneta buona, vanificando il lavoro di sensibilizzazione e di formazione faticosamente condotto finora sulla valutazione come strumento di apprendimento dall’esperienza e meccanismo di rendicontazione democratica dell’utilizzo delle risorse pubbliche. Il rischio è che si butti l’acqua sporca con il bambino se non si sviluppa un ragionamento più puntuale e circostanziato sulle problematiche valutative all’interno delle amministrazioni e sulle possibili soluzioni correttive.

Chairs: Mita Marra

Processi valutativi e strategie di blame avoidance. Analisi del dibattito e note sul caso del settore giudiziario italiano
Giancarlo Vecchi (giancarlo.vecchi@polimi.it)
AbstractLa letteratura sull’utilizzo della valutazione (intesa come produzione di informazioni e conoscenza) da parte degli attori coinvolti nel policy-making ha prestato molta attenzione sia alle diverse categorie di ‘utilizzo’ e, nello stesso tempo, anche alla identificazione dei casi di non-uso. La definizione delle quattro principali modalità di uso (strumentale, concettuale, processuale e simbolico), identifica già nella categoria dell’utilizzo ‘simbolico’ della valutazione una serie di eventuali comportamenti opportunistici da parte degli attori, che spostano l’attenzione dalla funzione di miglioramento dei processi di decisione e del contenuto delle politiche. Con riferimento al non-uso, sono state sottolineate variabili che hanno a che vedere: con la difficoltà di far incontrare le esigenze dei policy-maker con quelle dei valutatori; con l’ambiguità e/o complessità dei risultati analisi valutative; oppure con i problemi di attuazione delle ricerche di valutazione in ragione della difficoltà di reperire dati, realizzare indagini nei tempi adeguati, ecc. In quest’ultimo ambito, uno spazio è dedicato anche alle conseguenze indesiderate dei processi valutativi. Facendo riferimento proprio al tema delle conseguenze indesiderate, il paper intende approfondire il rapporto tra processi istituzionalizzati di valutazione di politiche e programmi, da un lato, e l’innesco di strategie difensive da parte degli attori valutati, con particolare riferimento alle strategie di blame avoidance. Il concetto di blame avoidance è stato più volte affrontato sia dalla scienza politica, con riferimento al comportamento degli attori politici; sia dalla policy analysis e dagli studi di public management, con riferimento ai processi decisionali e attuativi che vedono coinvolti non solo politici ma anche attori burocratici, produttori di servizi, utilizzatori. Meno frequenti sono invece le analisi riguardanti la relazione tra i processi di valutazione (tra cui, in senso ampio, si possono considerare anche gli strumenti di performance management) e le azioni che rientrano nei comportamenti di fuga dal biasimo. In particolare, appare evidente la relazione tra il meccanismo di naming and shaming, tipico di alcuni modelli di performance management utilizzati per aumentare la compliance e le prestazioni di diverse organizzazioni, attraverso la misura e comparazione dei loro output e outcome. Il paper si propone di presentare una review della letteratura in argomento, con specifico riferimento al rapporto tra processi valutativi e strategie di blame avoidance, considerate quali conseguenze indesiderate; l’obiettivo è sia di verificare la presenza di una sistematizzazione teorica del tema con riferimento ai processi valutativi, sia di identificare specifiche declinazioni del problema (ad esempio, se l’innesco di comportamenti di blame avoidance è favorito da specifiche modalità di disegno e attuazione delle valutazioni) e la presenza di possibili strade per evitarlo. La seconda parte del paper sarà dedicata ad un approfondimento sul caso del sistema giudiziario italiano. Da almeno un quinquennio, i principali attori del sistema giudiziario (Ministero della Giustizia, CSM, singoli uffici) hanno avviato modalità di rilevazione e analisi delle performance sia degli uffici giudiziari che dei magistrati, al fine di affrontare le difficoltà in particolare in materia civile (lunghezza dei processi, efficienza, ecc.). L’obiettivo è quello di analizzare se i problemi di attuazione di questi processi valutativi derivino anche dalla presenza di strategie di blame avoidance, così da trarre spunto dalla letteratura per indicare possibili strade per il loro miglioramento. Bibliografia di riferimento Henry, G. T. and M. M. Mark (2003) “Beyond Use: Inderstanding Evaluation’s Influence on Attitude and Actions.” American Journal of Evaluation, 23(3): 293-314. Henry, G. T. and D. J. Rog. (1998) “A Realist Theory and Analysis of Utilization.” New Direction for Evaluation, 78:89-102 Hinterleitner, M. (2015) “Reconciling Perspectives on Blame voidance Baheviour.” Policy Studies Review. Hood, C. (2011) The Blame Game: Spin, Bureaucracy and Self-Preservation in Government. Princeton, NJ: Princeton University Press. Patton, M. Q. (1997) Utilization-Focused Evaluation: The New Century Text. (3rd Ed.). Thousan Oaks, CA: Sage Publications. Pawson, R. (2013) The Science of Evaluation. A Realist Manifesto. London: Sage. Perri 6. (2010) “When Forethought and Outturn Part: Types of Unanticipated and Unintended Consequences”, in Helen Margetts, Perri 6 and Christopher Hood, Paradoxes of Modernization. Unintended Consequences of Public Policy Reforms. Oxford: Oxford University Press, pp. 44-60. Pollitt, Ch. (2013) “The Logic of Performance Management.” Evaluation, 19(4): 346-363. Weiss, C. H. (1979) “The Many Meanings of Research Utilization.” In Public Administration Review, 39(5): 426-431. Weiss, C. H. (1998) “Have We Learned Anything New About the Use of Evaluation?” American Journal of Evaluation, 19(1): 21-33.

Capacità amministrativa: un metodo empirico per valutare l'efficacia degli interventi
Erica Melloni (emelloni@irsonline.it)
AbstractIl paper prende le mosse da una ricerca valutativa effettuata da IRS per il Dipartimento della Funzione Pubblica nel corso del 2015, con l'obiettivo di individuare casi di successo e insuccesso e lezioni per la programmazione 2014-20, a partire dall'esperienza degli 11 Programmi Operativi di Assistenza Tecnica (POAT) promossi dal Programma operativo nazionale Governance 2007-13. Per quanto sempre più frequente nei testi dei programmi europei, nazionali e regionali, il concetto di capacità amministrativa è in sé polisemico e di fatto variamente interpretato nei diversi contesti attuativi. I numerosissimi progetti promossi nell’ambito degli 11 POAT nazionali, ad esempio, presentavano una grande varietà dal punto di vista dei temi trattati (ambiente, politiche per i giovani, turismo, better regulation, pari opportunità, eccetera), così come della portata finanziaria (da 4 a 19 milioni di euro) e del tipo di strumenti utilizzati, e contemporaneamente, un livello generalmente contenuto di adeguati sistemi di valutazione e accountability delle performance conseguite. Più in generale, i progetti di capacità amministrativa finanziati dai POAT si sono sviluppati in modo disgiunto, senza un solido collegamento rispetto al quadro logico iniziale previsto dal PON, che del resto non chiariva in modo decisivo cosa doveva essere finanziato e quali risultati erano attesi dalla corretta implementazione delle iniziative. Ulteriore difficoltà è stata costituita da una spesso limitata “memoria storica”, sia formale sia informale, sugli interventi realizzati, sulle ragioni di tali iniziative, sui prodotti/risultati conseguiti. Il disegno di valutazione ha dovuto tenere conto di questi elementi; è stato pertanto necessario ripensare il quadro logico sotteso alla realizzazione di interventi di capacità amministrativa in modo da guidare l'identificazione di pratiche esemplari in diversi ambiti di intervento. In particolare, è stato disegnato un framework analitico che da una parte permette di scomporre i diversi processi che vengono usualmente riassunti nel concetto generale di "capacità amministrativa" (ad esempio: capacità di analizzare il contesto; capacità di programmare; capacità di gestire partenariati complessi; ecc), e dall'altra, a distinguere diversi tipi di esiti attesi (efficacia, utilità, persistenza o trasferibilità degli interventi), con riferimento sia al miglioramento della capacità amministrativa in sé, sia più in generale al miglioramento di programmi, servizi, politiche portate avanti dalle amministrazioni beneficiarie. In altre parole è stata proposta una distinzione tra esiti finali o indiretti di capacità amministrativa (il miglioramento delle performance della PA) e esiti intermedi o diretti di capacità amministrativa (l’effettivo miglioramento di alcuni processi di lavoro). L’analisi dell’effettivo raggiungimento di tali esiti intermedi e finali, dei motivi di buoni risultati o di cattive performance si è concentrata su un gruppo di progetti rappresentativi di diversi ambiti di intervento e diverse modalità operative. Per questi progetti è stato adottato un approccio di analisi di tipo estrapolativo (una peculiare forma di studio di caso, orientata a generare conoscenza utile all’apprendimento, piuttosto che conoscenza intrinseca sull’oggetto specifico in analisi; Barzelay 2007). Il paper presenta dunque il framework analitico utilizzato per l’analisi della capacità amministrativa ed alcune esemplificazioni sulla base di esempi pratici di progetti implementati nell’ambito del PON Governance 2007-13, nonché alcune conclusioni critiche e lezioni a supporto di politiche di supporto alla capacità amministrativa più efficaci e misurabili.

Istituzionalizzazione della valutazione nei legislativi: cosa può fare la differenza?
Daniele Capone (caponedaniele@gmail.com)
AbstractOrmai da molti anni si sente parlare dell’importanza della valutazione nella Pubblica Amministrazione e di come questa possa essere un volano per buone politiche pubbliche e per un uso efficiente delle risorse. Allo stesso modo, sono ormai peraltro molto diffuse e studiate metodologie e indicatori nei diversi settori di policy e a diversi livelli di governo. Quello che sembra veramente mancare, o comunque non affermarsi, è l’uso costante della valutazione e il suo “incardinamento” a livello istituzionale. Tutti gli studi e le metodologie, presenti in letteratura o nella pratica, rimarranno lettera morta fino a quando l’azione normale delle istituzioni non comprenderà un uso stabile della valutazione. Per questo si ritiene che il primo e più importante elemento di sviluppo sia proprio la reale istituzionalizzazione della valutazione nei governi sia a livello locale che nazionale. Molto spesso si pone l’accento sugli strumenti e le metodologie (Dunn 2004; de Ridder et al. 2007), o sui diversi tipi di approccio alla valutazione. Ma questi aspetti, seppur importanti, devono essere concepiti all’interno di una visione più ampia di policy e, con essa, di una struttura e sistematizzazione che tenga conto del peso dell’impianto istituzionale (Jacob et al. 2008) e dei rapporti tra gli attori in gioco ai vari livelli di governo. Pertanto, guardare ad un sistema in cui soggetti istituzionali supportano il lavoro degli esecutivi e dei legislativi in termini di raccolta dei flussi informativi rilevanti per le decisioni pubbliche, valutazione delle politiche e nella funzione di indirizzo e controllo dei legislativi e di indirizzo degli esecutivi dovrebbe diventare un orizzonte verso cui tendere. Soprattutto nel nostro paese, si assiste ad un progressivo indebolimento del ruolo dei legislativi come promotore di politiche e di norme: a livello regionale è stata una delle conseguenze delle riforme elettorali, costituzionali ed amministrative che hanno investito l’Italia dall’inizio degli anni ’90 (Damonte 2003) dove i consigli regionali possono, secondo la classificazione di Mezey (1990), essere considerati dei legislativi “reattivi” avendo un ruolo modesto nel policy making. Il tema della complessità assume rilevanza maggiore in relazione alla presenza di sistemi di multilevel governance e al conseguente moltiplicarsi del numero di centri di produzione di politiche e con essi, di esigenze di accountability e di coordinamento tra i diversi livelli di governo (Regonini 2012a); inoltre, la recente proposta di riforma costituzionale, rende ancora più urgente e attuale un ragionamento su questi temi. Il problema dell’accountability è diventato quindi di primaria importanza nelle democrazie moderne (Bovens 2007) e ha trovato la sua collocazione nel Legislative Oversight secondo i suoi diversi aspetti di controllo dell’operato degli esecutivi e, dall’altro lato, come supporto al policy design attraverso la produzione di know-how. Infatti, si registra a tutti i livelli di governo e in diversi paesi, la necessità e lo sviluppo della valutazione delle politiche e della policy analysis e con esse la richiesta di efficienza, trasparenza e accountability. Gli organi di oversight istituzionale (pensiamo ad esempio all’esperienza americana), a loro volta, pur continuando a mantenere la funzione di watchdogs, hanno diversificato le proprie competenze per rispondere a nuove esigenze che superano l’analisi del budget governativo o l’efficienza finanziaria, arrivando ad essere competenti riguardo ai diversi aspetti e stadi delle politiche pubbliche (Hird 2005; Mosher 1984). Se inizialmente questa crescita era legata alla necessità di controllare i costi della finanza pubblica, o a quella di rimuovere i vincoli regolativi o, ancora, a ragioni particolari come la protezione dell’ambiente, ormai, sia a livello scientifico che istituzionale, si è fatta largo l’idea che, a fronte dell’enorme bisogno di informazioni e allo scopo di rispondere a problemi complessi (Brown 2009), strumenti e soggetti in grado valutare le politiche possono rappresentare un supporto al decision making (Owens et al. 2004; de Ridder 2006) e pertanto influenzare i processi decisionali. Questo è vero soprattutto in un paese come l’Italia, dove la cultura della valutazione non riesce ancora a diffondersi e ad essere fatta propria da chi opera nelle amministrazioni nonostante la sua formale condivisione in termini ideali e di principio. Nel presente paper verrà pertanto analizzato il ruolo dei soggetti che si occupano di valutazione e di come la loro azione possa influenzare i processi decisionali di policy e favorire politiche di sviluppo reale nel nostro Paese. Secondo alcuni autori, la valutazione non è vista solo come pura attività di controllo, ma come un learning by monitoring (Sabel 2001). L’idea stessa di usable knowledge (Lindblom 1965) rimanda al concetto della “valutazione che influenza altre istituzioni o avvenimenti” e dei destinatari come di “beneficiari” (Weiss 1998: p. 24): “nella valutazione istituzionale la concreta definizione del prodotto è condizionata solo marginalmente dai vincoli formali, quali la divisione costituzionale dei poteri e il mandato definito da leggi originarie” (Regonini 2004: p. 16). Nel nostro caso si intende analizzare, i soggetti e il ruolo che essi svolgono nei processi di policy tenendo presente alcune delle variabili classiche dello studio di sistemi istituzionali di valutazione (Regonini 2004; Weimer 2004): chi fa la valutazione e quali sono le caratteristiche in termini di organizzazione umana e finanziaria, con chi e in che modo si rapportano i soggetti di oversight con le varie istituzioni (legislativi, esecutivi, agenzie), quali sono i fattori di indipendenza e neutralità politica (criteri di nomina e revoca, durata del mandato, credibilità, reputazione, trasparenza procedurale), il rapporto con la comunità epistemiche, le caratteristiche dei prodotti. Gli elementi che vengono approfonditi riguardano pertanto: i processi di nomina, la composizione, la durata e il mandato; i compiti e le funzioni affidate; i prodotti. La presente ricerca analizza i sistemi di valutazione degli Stati Uniti con un’introduzione del livello nazionale (Government Accountability Office) e un’analisi più approfondita di quegli stati americani dove tali strutture si sono maggiormente affermate (Arizona, Wisconsin, Florida, Mississippi) che, diversamente dal livello nazionale, rimangono ancora oggi poco studiati. La ragione di questa scelta consiste nel fatto che si tratta delle esperienze di valutazione a livello istituzionale da maggior tempo affermate e inserite nel contesto istituzionale a livello internazionale (Capone 2012; Regonini 2012b). In questo modo sarà possibile rilevare e verificare la solidità, nel tempo, delle variabili allo scopo di costituire la base per la costruzione di un’architettura istituzionale della valutazione. L’assetto di governo infatti, può diventare un fattore secondario grazie ad elementi trasversali che, se perseguiti, permettono di garantire efficacia, indipendenza, trasparenza e accountability della valutazione. Successivamente invece, si analizzerà il contesto italiano con le medesime variabili sopra descritte esaminando in particolare alcune esperienze regionali (Lombardia, Piemonte, Toscana, Umbria). A partire dagli spunti emersi, verranno proposti gli elementi di carattere istituzionale utili allo sviluppo di “sistemi di valutazione” che permettano di favorirne l’uso nelle nostre amministrazioni e una cultura valutativa che guardi ad essa come un bene per tutti. Analogamente intende fornire un contributo scientifico nell’ambito dell’attuale dibattito sulla riforma costituzionale e al nuovo ruolo del Senato che vede nella rappresentanza regionale e nella valutazione i suoi elementi caratterizzanti.

La sostenibilità dei disavanzi di bilancio pubblico e la produttività della spesa. profili di policy
Adelaide D'Angelo (adelaide.dangelo@tesoro.it)
AbstractL’ingresso nell’Unione ha posto il problema della dinamica della spesa pubblica in una dimensione e prospettiva sovranazionale che risulta fortemente condizionata dalle regole monetarie. L’ultimo secolo ha conosciuto una crescita significativa della spesa pubblica nei sistemi economici, specialmente nei paesi più sviluppati; nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, fedelmente alla teoria di ispirazione keynesiana, è prevalsa l’adozione di politiche di espansione della domanda globale attraverso l’aumento di spesa pubblica (spesso finanziato in disavanzo) che ha, a lungo, sostenuto il livello di produzione. Il circolo è divenuto, negli anni, vizioso, in quanto la crescita esponenziale della spesa pubblica, di fatto divenuta “incontrollabile”, ha inciso sulla dinamica del debito pubblico, ponendo il problema della sua sostenibilità. Nell’attualità, la contemporanea presenza di crescita nominale debole e di disavanzi di bilancio pubblico eccessivi, aggravata, tra l’altro, dalle recenti crisi finanziarie diffuse a livello internazionale, ha riproposto con forza il tema della sostenibilità delle finanze pubbliche. La questione della “sostenibilità” del debito sembra dunque preponderante riguardo alla scelta di sostenere o meno i livelli di domanda aggregata. La componente spesa pubblica della domanda di beni è in grado di stimolare la crescita e l’occupazione ma la sua dinamica influenza lo stato del debito negativamente e per questa via anche la crescita e l’occupazione. In un contesto di vincoli stringenti che poco spazio lasciano ad una politica fiscale di spesa pubblica crescente, ha assunto importanza il processo di ristrutturazione della spesa pubblica, un processo molto complesso per la cui realizzazione si rende necessaria una strategia che comprenda una valutazione degli obiettivi dell’intervento pubblico tradotti da politiche adeguate e accompagnate da una valutazione delle implicazioni di tali politiche”. In buona sostanza, lo sfondo della Spending Review consiste nell’individuazione di priorità e obiettivi dalla quale far discendere – come nel caso del ridimensionamento di un bilancio – riduzioni di spesa e/o rallentamenti dei trend di crescita delle spese stesse; tutto ciò grazie alla definizione di priorità programmatiche (gli obiettivi strategici dell’azione di governo) alle quali saldare la macro-programmazione delle risorse finanziarie, avendo preferibilmente come base analitica la struttura del bilancio pubblico per missioni e programmi o comunque per grandi funzioni pubbliche (sanità, istruzione, …). E’ la logica della recente riforma della PA in Italia: si chiede alle amministrazioni di definire i criteri di misurazione della propria attività definendo, in coerenza con questi ultimi, gli obiettivi annuali e pluriennali, laddove la presenza di attività di valutazione costanti nel tempo, anche interne alle amministrazioni, può aiutare nel medio lungo termine a costruire una “memoria” degli esiti delle politiche pubbliche che, a sua volta, può portare ad una migliore allocazione delle risorse.

 

Panel 7.4 Le politiche per la sicurezza. Valori, strategie e strumenti (I)


In recent times security policies have been moulded by sources of extremism and radicalization that have triggered a diffuse sense of alarm and panicking within Europe, across its neighbourhoods and at the international level.
These dynamics have been addressed by states and a number of regional and international institutions and organizations Against this background, European security programs have been developed as a reaction to terrorist threat that have been framed as a transnational phenomenon. The extent to which security policies are shaped by local practices and actors has been overlooked, while security provisions are very often locally grounded.
The aim of this panel is to explore the evolution of homeland security concepts and security policy paradigms, in Europe and beyond, and to ascertain the degree to which their implementation can be detected in various policies and practices.
The philosophy and strategy of security policies seek to depart from the traditional approach of solely reacting to risks, crimes or incidents by calling upon both proactive and reactive measures in an attempt to eradicate - or minimize - the fundamental roots of criminal behaviours. Community policing is that law enforcement agencies will improve their performance and level of service to the community by forging partnerships with those actors identified as “external” to the police organization and by utilizing problem-solving techniques and new technologies in order to proactively combat and prevent crimes.
In many countries security policies are on top of the political agenda of central and local governments also in order to reach a better coordination among global, state and local authorities.
In recent years, a great deal of effort has also been invested in redirecting the role of international, regional and local authorities to protecting life and property from a multitude of internal and external threats and risks by increasing the ‘securitization’ of a number of issues.
This is particularly evident, for example in policies that address problems of urban deterioration or ordinary crime.
The panel seeks to gather contributions devoted to security policies as treated at various governance levels stretching from local to global. Multidisciplinary papers confronting the topic of security from different perspectives are particularly welcome.


Chairs: Serena Viola Giusti, maria stella righettini

Discussants: Serena Viola Giusti

Through military lenses. Security perceptions and learning in the case of Italian armed forces
Fabrizio Coticchia (fabrizio.coticchia@unige.it), Francesco Niccolò Moro (fnmoro@gmail.com), Lorenzo Cicchi (lorenzocicchi@gmail.com)
AbstractEuropean armed forces faced several challenges in the last two decades. The international context seems to be increasingly exposed to multidimensional and transnational challenges, such as pandemics, terrorism and organised crime. The methods used to study armed forces in the post-Cold War era have been rather uniform, mostly relying on in-depth case studies through qualitative interviews and analysis of strategic documents and budgets. While these approaches were able to convey an important part of the story, they could not fully grasp the military personnel’s perceptions of change, its determinants and its directions. This paper addresses this issue by presenting data from an original survey conducted among Italian military officers and focusing on their attitudes towards the transformations of the global security environment, the strategic context in which they operate and the changes occurring (and needed) within the Italian armed forces. After describing the “military view” on these topics, and showing its degree of coherence with the official doctrine, the paper provides preliminary statistical evidence on the links between individual experiences and change. The research aims to contribute to the broader debate on military transformation by adding a novel dimension of analysis and providing new insights on the micro-level aspects of learning.

La sicurezza negli stadi. Il nuovo modello organizzativo per la sicurezza dello Stadio Olimpico di Roma
Nicola Ferrigni (n.ferrigni@unilink.it)
AbstractUno degli ambiti più problematici di gestione della sicurezza in Italia è storicamente rappresentato dalle manifestazioni sportive, che non a caso negli ultimi anni hanno visto un grande sforzo di aggiornamento della normativa di settore e un impegno costante da parte delle Istituzioni, soprattutto quelle sportive, per soddisfare la domanda sempre crescente di sicurezza da parte della società. Spostandoci dall’ambito dello sport in genere al calcio, come è noto la gestione della sicurezza negli stadi è stata oggetto di una profonda revisione normativa dopo l’uccisione dell’Ispettore di Polizia Filippo Raciti (avvenuta nel 2007 nel corso del derby Catania-Palermo). Tuttavia, nonostante i risultati positivi seguiti all’introduzione di tale normativa (con una sensibile riduzione degli incidenti all’interno degli stadi, e di conseguenza una diminuzione del numero dei feriti sia tra i civili che tra le Forze dell’Ordine), è capitato – seppur con minore frequenza rispetto al passato – che alcune partite di calcio siano state “macchiate” da episodi di violenza, soprattutto all’esterno degli stadi, culminati nella morte del tifoso napoletano Ciro Esposito in occasione della finale di Coppa Italia 2014/2015 tra Napoli e Fiorentina, disputata allo Stadio Olimpico di Roma. Proprio lo Stadio Olimpico di Roma ha visto l’introduzione, nell’ultimo Campionato, di una nuova misura di sicurezza pubblica: l’installazione delle barriere all’interno delle curve e il frazionamento delle stesse. Come prevedibile, tale normativa è stata oggetto di discussione nel dibattito pubblico tanto sui media (sportivi e non sportivi) quanto tra i tifosi, e ha dato vita a forme di protesta che si sono tradotte in ultima istanza nello sciopero del tifo. L’obiettivo della ricerca è quello di studiare, da una parte, il grado di condivisione dei tifosi della nuova misura, dall’altra misurare la percezione che i tifosi hanno avuto di queste nuove misure nell’ottica di capire se e come esse hanno aumentato la percezione di sicurezza (in termini tanto di safety quanto di security) all’interno dello stadio. La ricerca si articola in due fasi che, dal punto di vista metodologico, utilizzano strumenti diversi di indagine. Nella prima fase utilizzeremo lo strumento dell’intervista a osservatori privilegiati, provenienti dal mondo delle Istituzioni, dell’informazione giornalistica e della cultura, per capire come essi hanno percepito e, a loro volta, veicolato la nuova normativa. La seconda parte della ricerca utilizza invece gli strumenti dall’analisi quantitativa, presentando i risultati di una ricerca compiuta sul campo e che ha visto intervistare circa 4.000 spettatori in occasione di 8 partite di calcio, disputate allo stadio Olimpico nel Campionato 2015/2016. Dalla ricerca emerge un elevato senso di sicurezza percepita tra i tifosi che frequentano lo Stadio Olimpico, contemporaneamente a una scarsa condivisione della nuova misura di sicurezza adottata che, a detta della maggioranza degli intervistati, non ha comportato alcun vantaggio perché la sicurezza passa principalmente dall’ammodernamento infrastrutturale e tecnologico e dal dialogo tra le tifoserie, la Società e le Istituzioni.

The European integration Fund, a trigger for domestic intra and inter institutional changes
gaia testore (gaiatestore@gmail.com)
AbstractOne of the “new” EU policy area is the Common Framework for the Integration of Third-country nationals. Since the end of the 1990s, the question of immigrant integration has arisen several times in different EU member states. Public opinions started to be concerned about failure of integration, mainly in traditional immigration countries, but not only. Initially, the governments focused their efforts on long-term residents or just arrived labour or family reunification migrants. Following the last refugees crisis, in some countries such as Germany, the attention shifted to this latter category. Since the high sensitiveness of the immigrant integration issue, the EU institutions have acquired only limited competences. In such a “thorny” policy area, mainly soft policies were adopted. These measures aimed to stimulate voluntary forms of policy-transfer (Dolowitz & Marsh 2000) and cross-national lesson-drawing (Rose 1993), with “no pressure to conform to EU models” (Radaelli 2003, 30). In that no coercive framework, some more incisive instruments were also formulated such as the European Integration Fund (2007-2013). Introduced in 2007, the European Integration Fund (EIF) was one of the four funds composing the General Programme "Solidarity and Management of Migration Flows" (SOLID). The Programme SOLID lasted up to 2013 and then, a new measure, the Asylum, Migration and Integration Fund (AMIF), was set up replacing the four funds for the period 2014-2020. Since similar measures provide not only economic resources and but also impose to member states some requirements such as the identification of a Responsible Authority or the adoption of annual/multiannual programmes, a certain incisiveness on national mode of governance may be supposed. Moreover, as any other policies, this sort of policies “encapsulates and promotes both causal and normative ideas” (Börzel & Risse 2009, 6). Since the recent renewal of this sort of funding programs, it is worth observing the domestic impact of this EU policy and evaluating to what extent EIF may explain ongoing domestic evolutions in the domestic mode of governance. With a comparative approach, this research analyzes the implementation of the EIF in two EU countries: Italy and France, respectively a more recent immigration country and a traditional one. Since their different immigration experience, different modes of governance mark these two states. Furthermore, these two EU member states were among the first five EIF beneficiary countries, receiving respectively the 17,48% and 8,02% of the EIF total resources (825 million). A particular attention has been committed to those domestic institutions that in both countries were appointed as National Responsible Authorities for the EIF, i.e. the Interior Ministries. Following the EIF input, specialization processes and institutional reorganizations have been observed, involving also allocations of competences and inter institutional negotiations, notably with the Labour Ministry. Moreover, since the complexity of immigrant integration, subnational intergovernmental relations (IGR) have been observed too. Migrant integration is a diffuse policy issue (Scholten and Timmermans 2010) which cut across a range of policy sectors that are controlled at different jurisdictional levels (Scholten 2012, Adam forthcoming). Therefore, the research has examined the evolutions occurred in the institutional arrangements and in the vertical (i.e. to sub-state and state levels) and horizontal (i.e. among different ministerial institutions) institutional relations. A process of centralization has been observed along with the strengthening of ministerial role, notably in Italy. The analysis of the implementation of this policy offered the opportunity to observe the impact of an EU input reflecting on the effectiveness of the transformations in the allocation of competences, in the mode of governance and the coordination of the policy sector. Along with analyzing official documents, interviews have been conducted with functionaries involved in the resources management in these two countries.

 

Panel 7.4 Le politiche per la sicurezza. Valori, strategie e strumenti (II)


In recent times security policies have been moulded by sources of extremism and radicalization that have triggered a diffuse sense of alarm and panicking within Europe, across its neighbourhoods and at the international level.
These dynamics have been addressed by states and a number of regional and international institutions and organizations Against this background, European security programs have been developed as a reaction to terrorist threat that have been framed as a transnational phenomenon. The extent to which security policies are shaped by local practices and actors has been overlooked, while security provisions are very often locally grounded.
The aim of this panel is to explore the evolution of homeland security concepts and security policy paradigms, in Europe and beyond, and to ascertain the degree to which their implementation can be detected in various policies and practices.
The philosophy and strategy of security policies seek to depart from the traditional approach of solely reacting to risks, crimes or incidents by calling upon both proactive and reactive measures in an attempt to eradicate - or minimize - the fundamental roots of criminal behaviours. Community policing is that law enforcement agencies will improve their performance and level of service to the community by forging partnerships with those actors identified as “external” to the police organization and by utilizing problem-solving techniques and new technologies in order to proactively combat and prevent crimes.
In many countries security policies are on top of the political agenda of central and local governments also in order to reach a better coordination among global, state and local authorities.
In recent years, a great deal of effort has also been invested in redirecting the role of international, regional and local authorities to protecting life and property from a multitude of internal and external threats and risks by increasing the ‘securitization’ of a number of issues.
This is particularly evident, for example in policies that address problems of urban deterioration or ordinary crime.
The panel seeks to gather contributions devoted to security policies as treated at various governance levels stretching from local to global. Multidisciplinary papers confronting the topic of security from different perspectives are particularly welcome.


Chairs: Serena Viola Giusti, maria stella righettini

Gender & Security: Women, Peace and Security agenda as a powerful tool in addressing contemporary security challenges
Irene Fellin (irene.fellin@gmail.com)
Abstract The “Women, Peace and Security agenda (WPS)” is potentially a most powerful tool for addressing security challenges of our times. It is better known under the name of its first Resolution, the United Nations Security Council Resolution 1325 adopted in year 2000. The adoption of UNSCR 1325 represented an historical moment, because for the first time role and responsibilities of women in conflict were put at the centre of the international security agenda. The subject shifted from being a side issue to the heart of security matters. This landmark resolution became a reality as a result of years of advocacy from feminist activists who could finally celebrate the recognition of women as agent of change in conflict related situations. The end of the Cold War and the transformation of the nature of conflict from inter-states to intra-state phenomenon had increased the devastating consequences on civilian population and mainly on women. The consciousness of the effects of wars and of the specifics needs that women can develop in conflict related situations, highlighted the need of involving more women in conflict prevention, conflict resolution and peacebuilding. Including in itself the key pillars of this agenda (prevention, protection and participation of women), UNSCR 1325 recognised the value of women and their unique capacity to address security issues in a more inclusive manner. It opened the door to future debates and further resolutions. During the next 15 years, UNSCR 1325 has been followed by seven additional resolutions. If the first resolution represented a milestone, the emergence of new conflicts, the reiteration of crimes such as the tactical use of sexual violence in conflict on one side and the constant evolution of security threats on the other, have represented the pushing factors for the adoption of new resolutions. This paper aims at analysing how the emergence of new security threats for contemporary societies has determined the need of adopting additional resolutions addressing security challenges in a gender perspective, as they require the development of new strategies both at global and local level. The latest resolution, UNSCR 2242 adopted in October 2015, represents a response to the most acute contemporary security challenges. Migrations in the past decades has led to a vast urbanisation of our countries. The deterioration of urbanisation and the increase of local crimes are deeply rooted in the territory and some parts of our cities, where the most dangerous forms of radicalisations are developed. These phenomena are pushing States, international and regional organisations to look for solutions to threats that are at the same time global in reach and rooted in local communities. Terrorism, radicalisation and violent extremism have generated a response by the international community in the adoption of UNSCR 2242, that specifically addresses the importance of including women in the counter terrorism and counter radicalisations initiatives. UNSCR 2242 can also be seen as a response to the shortcomings that the Global Study, undertaken on the occasion of the 15th anniversary of the adoption of UNSCR 1325, has highlighted, about how the WPS agenda has partially failed and how far we are from a real implementation of its. The Global Study underlined, among other issues, the mismatch between the principles enshrined in UNSCR 1325 and related resolutions, and the concrete commitment of States in implementing them. UNSC Resolutions can be a powerful instruments for integrating gender perspective in all aspects of security agenda, underlining the essential role women can and should play to reduce conflicts and promote inclusive democracy, to the extent that they are connected and synchronised with the evolution of security landscape, and be regarded as an effective tool for addressing these challenges.

The Securitization of Cultural Heritage
Serena Viola Giusti (serena.giusti@sssup.it), alessandra russo (alessandra.russo@sssup.it)
AbstractThe Securitization of Cultural Heritage Serena Giusti and Alessandra Russo (Sant’Anna School of Advanced Studies) serena.giusti@sssup.it; alessandra.russo@sssup.it Abstract It is not a novelty that art comes under attack. Cultural heritage has always been endangered by wars, conflicts and political violence. Historical artefacts, monuments museums, archaeological sites, libraries have been violently attacked and destroyed, either as collateral damage of military operations, or as deliberate targets of insurgents, criminals and terrorists seeking to annihilate their symbolic significance in terms of collective identities and historical memories. From the burning of Alexandrina library that has become a symbol of "knowledge and culture destroyed" trough the bombs exploded near the “Uffizi” in Florence to the ISIS’s destruction of Palmyra, monuments have been frequently plundered and vandalized. Recently, the cultural damage has mounted: ancient cities such as Homs and Aleppo have been reduced to ruins. Roman, Greek, Babylonian and Assyrian sites have been destroyed by fighting and looting, and five of the six Unesco World Heritage sites in Syria have been seriously damaged. Isis increasingly destroys cultural heritage as part and parcel of a multi-dimensional strategy to confront the West and to cancel what it represents. In addition, the breakdown in law and order in conflict situations gives criminals the opportunity to steal items of great significance for economic reasons as the business of antiquities is very lucrative and there are new clients from emerging markets. In some cases, the smuggling of antiquities has been favoured by lack of documentation, archiving and cataloguing as in the case of Libya. Against this background, UNESCO Director-General, Irina Bokova, described these tragic events as “cultural cleansing” and urged the UN Security Council to include the protection of cultural sites in the lists of UN peacekeeping forces” tasks. Having a significant tradition of cultural heritage protection and promotion, Italy has proposed to create “Cultural Blue Helmets” to defend world cultural heritage from various threats, primarily from terrorist attacks. Even more recently, in the wake of the Paris massacre in November 2015, the French President Francois Hollande declared that his country would have been a refuge for those antiquities which are threatened by the Islamic State and that the right to asylum applies to people as well as cultural artefacts. Moving from the construction of security in contemporary international politics as elaborated by the Copenhagen School approach, this article aims at showing the increasing ‘securitisation’ of cultural heritage. This conceptual framework has been variously applied to a plethora of issues such as migration, health, pollution, minority rights, especially in the context of the post-2001 US-led ‘war on terror’. Therefore, the security concept has expended from traditionally military onto political, economic, societal and environmental to include also cultural heritage. While International law, thanks to the legal instruments developed by UNESCO, has been very receptive to the protection of cultural heritage as a general interest to humanity, the incorporation of securitization of cultural heritage in the political agenda of governments and various international organizations (UE, OSCE, NATO) is a more recent phenomenon that deserves attention. The topic has been dealt especially by archaeologists, historians of art, lawyers while political scientists have slightly and lightly analysed the phenomenon. The literature is very poor and fragmented. It is therefore necessary to elaborate a conceptualization of securitization of cultural heritage. Besides the obvious protection of monuments during times of armed conflict, securitization implies also the defence of cultural heritage for its symbolic value both in areas of conflict and in the so-called West. In addition, securitization comprises all the measures necessary to struggle against antiquities smuggling, one important economic revenue for Isis. Securitization passes through ‘positive’ policies like the promotion of cultural heritage as a form of public engagement (e.g. promotion of cultural heritage knowledge by museums or other institutions) the use of art as a peaceful means of resistance to assaults against cultural symbols (replication of monuments) but also as a long-term strategy for eradicating violence and hate . Finally, the article advances and explores some hypotheses in order to explain the increasing securitization of cultural heritage (e.g. dramatic increasing of number of attacks; ideologization of the attacks as the targets have a significant symbolic value; ISIS destruction of cultural heritage is perceived as a global menace…).

Food safety regulation in Europe: how to measure performance and effectiveness
Giulia Bazzan (giulia.bazzan@unimi.it)
AbstractThe paper aims to review the existing empirical literature on food safety regulation in Europe in order to assess how performance and effectiveness are measured. The paper explores the main empirical contributions that describe the measurement process they applied to operationalize some key variables. Those variables have been identified through a preliminary literature review. This allowed to draw a general picture of the state of the art in the field of food regulation and to explore the research opportunities. Furthermore, measurement and operationalization processes are assessed. The method used is systematic review, which allows replicability and relies on the "key principles of objectivity and scientific rigor" (Arthur et al. 2012). The paper eventually discusses the results in order to set the ground for further empirical analysis on the impact that the institutional regime has on the effectiveness of food regulation.

 

Panel 7.5 In memory of Valeria Solesin. Welfare and employment policies in a gendered perspective: how to enhance female activity and fertility.


The relation between policies, gender relations, female employment and fertility is one of the major issue of contemporary societies and at the heart of Valeria Solesin’s works. As many welfare analysts have pointed out, by influencing gender relations and family arrangements, work-life policies may enhance or reduce female activity and birth rates. Moreover, the increasing use of flexible contracts may reduce the possibility of future planning thus impacting on maternity choices. Drawing from this debate, we invite participants to investigate the relation between social and employment programs on one side and gender relations, female activity and fertility on the other. The panel aims at hosting comparative and inter-disciplinary approaches, while both qualitative and quantitative methods will be welcomed. The panel encourages also papers developing case-studies on the evaluation of single policy programs. The following issues are indicative of the fields of the panel:
• Analysis of work-life balance, equal opportunities, work or employment policies in a comparative perspective.
• Analysis of social-demographic trends (i.e. fertility and women’s occupation) in a comparative perspective.
• Analysis of the relations between policies, women’s choices and cultural assumptions.
• Papers devoted to the analysis of the implementation phase of social and employment programs (both in a comparative perspective and as single programs).
• Impact evaluations of single policy programs on different outcomes conducted through counterfactual techniques.

Chairs: Elena Fontanari, Camilla Gaiaschi

La rivoluzione (molto) incompiuta delle donne italiane sul mercato del lavoro
Annalisa Tonarelli (annalisa.tonarelli@unifi.it)
AbstractAll'interno del presente contributo si intende affrontare il tema della partecipazione delle donne italiane al mercato del lavoro. I dati dell'Indagine Forze di Lavoro mostrano in modo incontrovertibile come i tassi di attività delle donne italiane, pur con differenze significative a seconda dell'area geografica di residenza, dell'età e delle credenziali educative possedute, restino, ad oggi, molto bassi. Un'analisi diacronica mostra inoltre come, nel tempo, i trend di crescita risultino decisamente più ridotti rispetto a quelli che caratterizzano la componente femminile negli altri paesi d'Europa. L'obiezione che spesso viene opposta a questo dato è che il tasso di attività poco e male riesce a tener conto di quelle forme di occupazione informale e sommersa nella quale le donne, soprattutto in alcune aree del Paese, sarebbero più degli uomini coinvolte. Che donne, formalmente casalinghe, in realtà possano sperimentare forme di lavoro "in nero" è senz'altro vero ma ciò non attenua, al contrario aggrava, un quadro di debolezza e di esclusione rispetto a quei diritti di cittadinanza che ancora al lavoro si legano. Più utile è, semmai, l'apporto che alla più approfondita conoscenza del fenomeno dell'esclusione occupazionale, ci viene dagli indici integrativi proposti dall'Istat e che si pongono l'obiettivo di individuare e connotare la componente dei lavoratori scoraggiati: anche in questo caso, tuttavia, la posizione delle donne si presenta quanto mai critica. Nel corso della prima parte del contributo verrà proposta un'analisi dettagliata, ma snella, dell'insieme dei dati sopra ricordati avvalendosi di richiami a quanto prodotto dalla recente letteratura italiana ed internazionale su questi temi Le ragioni che stanno alla base della permanente esclusione delle donne dal mercato del lavoro, sono certo molteplici. Fonti OECD evidenziano per il nostro Paese, sia la sussistenza di forti discriminazioni di genere riguardo alle condizioni di lavoro, sia l'assenza, o la debolezza, di misure atte a favorire la conciliazione per le lavoratrici impegnate anche nel lavoro di cura. La presenza di tali vincoli, aiuta a delineare i fattori che, combinandosi, creano in ambito lavorativo, un campo di forze centrifughe che continuano a spingere una componente importante di donne verso i margini o addirittura fuori dal mercato del lavoro. Tuttavia la loro sussistenza rappresenta un dato tutt'altro che neutro. Nell'ipotesi di lettura che intendiamo proporre, tali vincoli sarebbero il portato, non l'unico, di una visione del ruolo della donna nella nostra società ancora fortemente appiattita sui ruoli riproduttivi e di cura. Questa visione, ben lungi dall'essersi sradicata, ci pare tornare, al contrario, negli anni della crisi, a riaffermarsi con nuova forza anche tra le generazioni più giovani e tra le più istruite. L'analisi dei micro dati tratti dall'European Value Survey consente di mettere in evidenza come permangano, in Italia più che in qualunque altro paese europeo, forti retaggi di tipo culturale e valoriale che, di fatto, stigmatizzano, non tanto l'occupazione femminile tout court, ma una partecipazione che vada a discapito delle esigenze degli altri componenti del nucleo familiare. I dati, che proporremo in questa seconda parte del contributo, sono inequivocabili nel fotografare una società dove, indipendentemente dal genere, resta forte l'idea che il lavoro rappresenti un'esperienza più importante per gli uomini che per le donne; che occupazione e autonomia non siano tra loro interconnesse; che il coinvolgimento professionale delle madri incida negativamente sul benessere dei figli. Nel corso del tempo queste valutazioni sono, certo, un po' cambiate ma non al punto da far intravedere, come ad esempio è accaduto in Spagna, una netta presa di distanza nei confronti di una visione segregata dei ruoli, da parte delle nuove generazioni di uomini e donne. Nel corso della seconda parte del contributo l'analisi dei dati EVS verrà ad intrecciarsi con riferimenti al dibattito pubblico e alle rappresentazioni che vengono proposte della donna-madre-lavoratrice (Solesin 2015) Con la terza dell'analisi si intende entrare in modo più specifico all'interno dei risultati di un'indagine condotta partendo dalla provincia di Firenze. ). Il contributo presentato prende avvio dai risultati di un'indagine condotta per la provincia di Firenze sull'universo dell'inattività femminile, che ha consentito di far emergere quattro diversi profili di casalinghe (Alacevich, Tonarelli 2013, 2014). Rispetto a quel primo prodotto, l'analisi proposta si addentra, grazie ad un vasto materiale di ricerca a carattere qualitativo costituito da interviste biografiche e testimonianze raccolte in rete, all'interno delle esperienze di quelle che sono state definite casalinghe temporanee. Si tratta di donne, giovani e con titoli di studio elevati, che reagiscono all'incertezza occupazionale investendo nella sfera familiare e domestica come un luogo di appagamento che mette al riparo dalle frustrazioni di un lavoro precario o di una carriera che non decolla; che sperimentano così una sorta di moratoria in attesa di inserirsi (o reinserirsi) sul mercato del lavoro. Le figure che all'interno di questo contributo si raccontano, sono molto diverse dalla casalinga tipica di tanta iconografia anni '70, con il foulard in testa che brandisce l'aspirapolvere invocando l'uso delle pattine come unica ragione di vita. Si tratta di donne colte, che investono fortemente nella cura e nell'educazione dei figli più che nella manutenzione della casa; partecipano di una socialità appagante che, l'uso intensivo di internet, rende ancora più ampia e permeante; svolgono attività creativo-ricreative - a volte in continuità con la professione intellettuale praticata in precedenza - che possono trasformarsi anche in episodiche occasioni di lavoro come avviene, tipicamente, nel caso delle blogger; vivono con i partner, dai quali pure sono economicamente dipendenti, un rapporto (almeno apparentemente) paritario e improntato alla condivisione. Per quanto l'equilibro raggiunto non sia sempre così idilliaco e stabile, mostrano una straordinaria capacità di sospendere il giudizio riguardo ai rischi che possono presentarsi in quella che rivendicano come una strategia di aggiustamento all'interno della loro biografia: la mancanza di autonomia; una rottura familiare; la perdita dell'unico reddito di casa; la reale possibilità di rientrare sul mercato; non in ultimo, l'influenza che scelte di tipo adattivo - come le loro - assunte a livello individuale, possono avere riguardo all'assunzione di quello della conciliazione come un problema collettivo che è urgente risolvere. La sostanziale epoché sulla quale si fonda la pace di oggi sembra tuttavia trovare una sponda sicura nelle incrostazioni valoriali che riguardano tanto il ruolo materno che la legittimità delle aspirazioni professionali delle donne e che, come hanno mostrato chiaramente i dati dell'European Value Survey, permangono ancora straordinariamente forti nel nostro Paese. E' proprio tornando sulle informazioni contenute in questa indagine europea che si intende concludere il contributo al volume. Per quanto il dato disaggregato a livello territoriale perda significatività statistica, non si intende trascurare la possibilità che il database offre di andar a cogliere le valutazioni espresse da siciliani e siciliane intorno agli items che hanno fatto l'oggetto dell'analisi contenuta nella seconda parte del capitolo. A chiusura di questa parte di analisi verranno individuati una serie di interrogativi che la riflessione sui dati lascia aperti e che pongono le basi per immaginare un ampliamento della raccolta delle storie di vita di "inattive" che comprenda in modo significativamente ampio anche donne giovani che vivono al Sud.

Dalla mera parità di trattamento all’eguale considerazione e rispetto: qualche caveat sulle azioni positive
Luca Giacomelli (luca.giacomelli@unifi.it)
AbstractRispetto agli Stati Uniti, patria delle affirmative actions, negli ordinamenti europei la questione delle azioni positive giunge più tardi e con modalità differenti: in particolare, l’azione positiva non viene interpretata in termini di «risarcimento di una discriminazione passata», di concessione di «vantaggi» o di «eccezione» al principio generale d’eguaglianza bensì come misura atta a controbilanciare e rimuovere gli effetti dannosi dei pregiudizi radicati nella struttura sociale e culturale nei confronti di alcune categorie di individui. L’azione positiva dovrebbe soltanto rimuovere le barriere che non consentono a tutti di competere ad armi pari, senza mai spingersi, però, ad eccedere i limiti della deroga all’eguaglianza formale «sostituendo all’obiettivo della promozione delle pari opportunità, un risultato al quale si potrebbe pervenire solo mediante l’attuazione di tale obiettivo». Tuttavia tali azioni, se da una parte rappresentano una potente risorsa per il principio di eguaglianza, dall’altra corrono il rischio di trasformarsi in un boomerang contro gli stessi gruppi che intendono favorire, alimentando oltretutto una faziosa retorica sulla illegittimità delle cd “discriminazioni al rovescio” e sulla menomazione di un generico principio meritocratico. Qualcosa di vero forse c’è ma occorre fare delle precisazioni. La riflessione critica sull’utilizzo delle azioni positive a favore delle donne deve essere portata a un livello più generale che chiama in gioco la logica e il funzionamento stessi del diritto antidiscriminatorio, divenuto oggi l’estrinsecazione dominante del principio giuridico di eguaglianza. In effetti, la declinazione antidiscriminatoria dell’eguaglianza porta con sé alcuni effetti collaterali allorché, fondandosi su rigide categorizzazioni, tende a riaffermare la “devianza” e l’“inadeguatezza” del soggetto bisognoso di tutela rispetto ad uno standard di “normalità”, assunto implicitamente come modello desiderabile a cui aspirare. È una tutela che tende all’omologazione del “diverso” al fine di consentire l’accesso a un insieme di diritti e privilegi da cui altrimenti sarebbe escluso, ma che non intacca le radici delle disuguaglianze, originate dalla sistemica subordinazione e svalutazione di certi gruppi e categorie sociali. La vera obiezione alla tecnica delle azioni positive consiste nell’effetto stigmatizzante nei confronti dei soggetti del gruppo che si vuole supportare: ancora una volta si sottolinea la loro “inferiorità” rispetto alla norma, rappresentata in questo caso dal genere maschile. Pertanto, la previsione di misure di favore radicherebbe ancor di più negli appartenenti ai gruppi svantaggiati la consapevolezza della propria subordinazione e alimenterebbe tra gli appartenenti al gruppo dominante il retrogusto di privilegio immeritato. L’effetto stigmatizzante ed essenzialista, che certe norme a favore delle donne possono produrre, finirebbe per rinforzare il pregiudizio di fondo, ovvero di tutte le donne come votate esclusivamente alla cura e alla maternità e come “less able workers”, e si tradurrebbe in altrettanti freni al loro ingresso nel mondo del lavoro, promuovendo una sorta di segregazione di ritorno. Inoltre, limitarsi ad agire su un singolo fattore (il genere) e ignorare l’insieme delle caratteristiche, delle esperienze e delle condizioni socio-economiche della persona può risultare distorsivo al punto anche da favorire i “privilegiati” della categoria protetta a scapito degli svantaggiati della categoria non protetta. Anche perché la previsione di strumenti “obbliganti” alla mera parità di trattamento non intacca le cause della diseguaglianza di genere. Ciò è evidente in chi utilizza l’argomento della meritocrazia (valore invocato, di regola, in modo acritico e astorico) per criticare tali misure, bollandole come privilegi ingiustificati volti a sottrarre alle regole dell’efficienza, della capacità e della competitività certe fasce della popolazione a scapito dei più meritevoli. Per esempio, le cd “quote rosa”. Sulla legittimità di tali previsioni è intervenuta più di una volta la Corte costituzionale che lo ha fatto, da ultimo, nella sentenza n. 4 del 2010 dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione della legge elettorale campana, che stabilisce l’obbligo in capo all’elettore regionale, nel caso in cui questo decida di esprimere due preferenze, di indicarne una riguardante un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza. Il giudice costituzionale, ritenendo utopistico il verificarsi di un mutamento spontaneo del contesto politico-culturale per garantire il principio delle pari opportunità, ha avallato l’intervento del legislatore regionale teso ad imporre ai partiti delle misure volte a realizzare l’eguaglianza delle condizioni di partenza (parità di chances) senza incidere sui risultati della competizione elettorale ed ha distinto tra misure di riequilibrio legittime (leggasi ‘misure antidiscriminatorie’, ‘azioni positive in senso debole’, ‘azioni positive atipiche’) e, di contro, illegittime (leggasi ‘azioni positive in senso forte’, ‘azioni positive tipiche’). Costituzionalmente possibili sono tutte quelle misure che garantiscono le pari opportunità dei punti di partenza e non quelle che dovessero garantire il risultato elettorale (imposto con legge). La vicenda italiana delle rappresentatività politica delle donne è emblematica dell’ambiguità delle azioni positive e della difficoltà di trovare argomenti forti per giustificarle in sede costituzionale. Alle azioni positive si deve allora ricorrere in modo critico e tenendo sempre in conto le specificità del contesto in cui si agisce. Nelle azioni positive, la componente sostanziale del principio di eguaglianza trova una formidabile risorsa, ma anche il rischio di una sua pesante contraddizione. Da un lato, ci scontriamo con la pretesa neutralità del diritto e la richiesta dell’eguaglianza formale di non differenziare sulla base di una delle caratteristiche protette; dall’altro lato, emerge la consapevolezza che intervenire solo su specifici contesti discriminatori o solo con misure indirette potrebbe non riuscire a rimuovere la sotto rappresentazione delle categorie svantaggiate. Del resto, bisogna ricordare che è un problema culturale quello che si cerca di risolvere; a ben vedere, però, il concetto di parità dei gruppi all’interno della rappresentanza politica o in ambito professionale rafforza la concezione della differenza “naturale”, “congenita” fra i sessi, fra le razze, fra gli orientamenti sessuali e via dicendo, prestandosi dunque ad un esito più che conservatore. Pertanto, più che su misure antidiscriminatorie come queste bisognerebbe agire sui fattori istituzionali e culturali che, movendo dal basso, si traducano in azioni spontanee a sostegno delle categorie svantaggiate. Tali misure, sono il frutto di un ragionamento stereotipato e finiscono per alimentare l’antagonismo tra le diverse categorie sociali e il pregiudizio nei confronti dei soggetti del gruppo protetto. La tollerabilità costituzionale di queste misure, comunque sussidiarie e provvisorie, non può che essere analizzata caso per caso, guardando alla gravità e alla persistenza del fenomeno e senza perdere di vista il quadro più ampio di una società in cui il genere femminile è subordinato a quello maschile. Deve essere questa la chiave di lettura degli interventi di eguaglianza: da una dimensione che si preoccupa semplicemente della rimozione delle discriminazioni a carico degli individui “deboli” mediante norme che assicurano la parità di trattamento a prescindere dalla “categoria” di appartenenza, a una dimensione che riconosca invece l’esigenza fondativa e fondante di rimuovere la subordinazione della razza nera a quella bianca, del genere femminile al maschile, dell’orientamento omosessuale a quello eterosessuale e così via.

Che genere di uguaglianza? Diritti da attuare e responsabilità da condividere tra famiglia, lavoro e società
Elena Urso (elena.urso@unifi.it)
AbstractLa rilettura di un contributo di Valeria Solesin - pubblicato negli Atti del III convegno nazionale del Centro di Studi Interdisciplinari di Genere, svoltosi a Trento nel febbraio del 2014 - è stato il punto di partenza di un’idea, subito condivisa con i suoi familiari, quella di dar spazio, in un testo ormai giunto alla fase conclusiva di elaborazione - una raccolta interdisciplinare intitolata Uguaglianza, lavoro, diritti. Dalle misure di tutela alle pari opportunità – a quello che può essere considerato il fulcro della sua riflessione, rappresentato dall'analisi delle politiche sociali e dalle soluzioni adottate nel campo del lavoro al fine di rendere concreta la prospettiva dell'uguaglianza di genere, favorendo l'accesso all'attività lavorativa e la progressione di carriera delle donne e, al contempo, rendendo concreto l'obiettivo di dar vita a un nucleo familiare, senza subire condizionamenti tali da indurre a rinviare la maternità o a dovervi perfino rinunciare. Se ci si colloca nell'ottica giuridica, nell'accogliere un metodo che dà risalto ai risultati delle indagini svolte in ambito sociologico, si può osservare una crescente enfasi posta su finalità da molti condivise, quantomeno formalmente, e declamate in tanti documenti, Carte dei diritti, piani strategici e programmi politici, che appaiono sempre più frequentemente disattese, però, sui luoghi di lavoro. Accogliendo un punto di vista comparatistico, la discrasia tra la fase di enunciazione e quella di attuazione può esser colta in modo più consapevole, grazie al confronto tra i dati desumibili dagli studi demografici, alla luce dell'approfondimento delle modalità con le quali, nelle singole realtà statali e, al loro interno, nelle differenti aree dei vari Paesi, si tenta di perseguire una serie di strategie comuni, tra cui la conciliazione tra tempi di cura e di lavoro, tenendo conto delle attitudini a condividere, fra uomini e donne, le responsabilità di care givers, superando gli stereotipi di genere. Si può notare, così, che, quanto più ci si disancora da aspettative espressione di antichi retaggi socio-culturali, tanto maggiore si rivela la propensione di ciascun sistema nel far fronte agli ostacoli che tuttora si frappongono alla piena esplicazione della libertà di scelta, da parte delle donne, non solo nella sfera lavorativa, ma altresì in quella affettiva e procreativa, come pure in ogni altro ambito in cui questa può esercitarsi. Indubbiamente, la politica non può non svolgere una funzione cardine, anzi è il terreno d'elezione in cui si delineano gli interventi da prefigurare. Al tempo stesso, le decisioni politiche devono dar conto delle modalità con le quali sono adottate, e in particolare del tasso di partecipazione democratica e paritaria, di cui è presupposto ineludibile la presenza delle donne nei vari contesti deliberativi. Per reagire al deficit di cittadinanza, e, dunque, di democrazia, si sono compiuti molti sforzi per inseguire quel “mito dell’autonomia” – di cui parla in termini critici Martha Albertson Fineman – così da condurre, paradossalmente, al rafforzamento dei modelli incentrati sul perpetuarsi delle situazioni foriere di quelle che sono definibili come forme di “fragilità consolidata”, suscettibili di irrigidirsi irreversibilmente. Solo prendendo atto della trasversalità delle ragioni sottese alla disparità di trattamento e delle diseguaglianze, si può pervenire alla percezione dei rischi insiti in ricorrenti forme di autosegregazione, più o meno volontarie, innescate dalla tendenza a favorire la prospettiva propria del diritto anti-discriminatorio, con la conseguente adozione di “categorie” distinte, elaborate per differenziare quanti siano classificabili come “vittime” di discriminazione, e da ritenere, pertanto, destinatari della tutela da apprestare (donne, migranti, minori d’età, appartenenti ad etnie minoritarie, soggetti privi di occupazione, e così via). Com’è ormai sempre più evidente, “le attuali prospettive in tema di uguaglianza di genere riflettono sempre più la diversità fra le esperienze vissute dalle donne. Gli studi accademici sulla cosiddetta ‘intersezionalità’ hanno determinato un notevole riconoscimento dell’incidenza esercitata dalle differenti caratteristiche individuali”. Fra le possibili modalità di reazione, suscita un notevole interesse quella che postula una rinnovata visione del concetto di “vulnerabilità sociale”. Partendo dalla contestazione del convincimento per cui sia sempre possibile raggiungere la pienezza dell’autodeterminazione, e facendo leva sull’affermazione dell’intrinseca mutevolezza della condizione individuale, non riconducibile al paradigma di una razionalità astratta, separata dai bisogni della persona, si individua nell’interdipendenza un valore, fondato sulle relazioni, essenziali per la comunicazione e la socializzazione. Di qui, appunto, il riconoscimento della “vulnerabilità” – a lungo disconosciuta perché vista quale espressione di “debolezza” e di “diversità” da rinnegare, se non superabile. In tal modo, le opzioni legate alla riproduzione possono dispiegarsi appieno, ossia tramite il riconoscimento dell’essere umano come ineluttabilmente esposto alla vulnerabilità, consentendo di arginare l’incidenza delle limitazioni fonti di diseguaglianza. Queste ultime, tacciate dai promotori della visione rivolta all’obiettivo dell’autonomia individuale quali tratti fisiognomici delle categorie “svantaggiate”, possono esser ridotte fino ad esser anche eliminate nel momento in cui ci si fa carico dei problemi che ciascuno può trovarsi a dover fronteggiare, se posto in una condizione di vulnerabilità, senza per questo vedersi attribuire una “qualificazione” immodificabile, quasi si trattasse del pedaggio da pagare per poter valicare il confine che conduce all’uguaglianza, ossia per beneficiare di vantaggi volti a riequilibrare la posizione di chi si trova ad esser “diseguale”, come si fosse in presenza di uno status di inferiorità rimuovibile solo tramite il ricorso a specifiche misure protettive, modellate su un archetipo che si autoriproduce. Tutti questi temi formano oggetto, da anni, di noti filoni di ricerca, correlati a specifici progetti, molti dei quali attuativi di “programmi europei”. Può esser molto stimolante il confronto fra chi si occupa di questioni giuridiche nell'ottica sia sostanziale, sia processuale, e chi ha un interesse verso la riflessione politica, filosofica, sociologica e storica. Fra le esperienze interdisciplinari che si sono attuate recentemente, si segnala, in particolare, quella del "Gruppo di lavoro interuniversitario sulla soggettività politica delle donne”, ideato e coordinato da Lucia Re ed Orsetta Giolo, che ha reso possibile una serie di incontri, nel corso dell’ultimo quinquennio, “facendo dialogare teoria critica e pratica politica”. Fra le esperienze tuttora in corso, che vede coinvolte esperte di diverse discipline, che hanno partecipato, in vario modo, sia agli incontri appena accennati, sia ad altri eventi, sostenuti dall’associazione CONTACT, merita un cenno altresì il Workshop dedicato alla vulnerabilità e la giustizia sociale, previsto per il 17-18 giugno 2016 presso l’Università di Leeds, in attuazione del più ampio progetto elaborato da Martha Albertson Fineman, alla Emory University School of Law, di Atlanta, quindi esteso alla collaborazione con docenti dell’Università svedese di Lund, Ulrika Andersson e Titti Mattsson, e noto come “Emory and Lund Vulnerability Project Partnership”. E’ con questa attitudine, volta ad accrescere l’intensità degli scambi e la profondità delle interazioni, che si vuol presentare quello che può esser descritto come un “work in progress”, in grado di continuare lo studio dell’effettività del principio di parità, profilo che ha contraddistinto il lavoro di approfondimento sociologico svolto da Valeria Solesin.

Fecondità e politche pubbliche: i lavori di Valeria Solesin sulla Francia e Italia
Lidia Panico (lidia.panico@ined.fr), Arnaud Regnier Loilier (arnaud.regnier-loilier@ined.fr), Laurent Toulemon (toulemon@ined.fr)
AbstractSociologa e demografa di formazione, Valeria Solesin cominciava la fase finale del suo dottorato sul comportamento riproduttivo contemporaneo in Italia e in Francia. In particolare, si proponeva di analizzare la transizione al secondo figlio: il passaggio dal primo al secondo figlio si concretizza meno frequentemente in Italia, anche se la maggior parte delle coppie nei due paesi desidera avere almeno 2 figli. Italia e Francia sono due paesi, simili per svariati punti di vista (geografico, culturale e sotto certi aspetti anche demografici), nondimeno diversi sotto l'aspetto della fecondità e del tasso di partecipazione femminile: “l'indice congiunturale di fecondità è di 2 figli per donna in Francia, mentre è solo 1,4 in Italia. Riguardo il tasso di occupazione, esso è superiore alla media europea nella prima nazione, laddove è inferiore nella seconda.” Ancorata ad una prospettiva di genere, , il suo approccio analizza allo stesso tempo le norme e le rappresentazioni della famiglia nei due paesi, e mette al centro del ragionamento il ruolo delle politiche sociali e familiari. Per fare ciò, Valeria si propone un approccio pluridisciplinare fondato sull'analisi critica delle politiche, sullo studio dei dati statistici francesi e italiani come anche sulla realizzazione di interviste qualitative in entrambi i paesi. In questo intervento presenteremo il percorso e la metodologia interdisciplinare di Valeria, e, a partire dai suoi lavori di tesi, le sue analisi sulle determinanti inerenti alla fecondita’ delle coppie in Italia e Francia, e il modo in cui le condizioni sociali e politiche rispetto alla conciliazione della vita professionale e familiare possono spiegare le differenze osservate tra i due paesi.

 

Panel 7.6 Italian labour market reforms in comparative perspective (I)


In the last four years there have been two major labour market reforms in Italy: in 2012 the so-called Fornero reform (L 92/2012) and in 2014/2015 the so-called Jobs Act (L 183/2014 and its eight implementing decrees). Both, in particular the Jobs Act, deregulated dismissal protection and extended unemployment protection to an extent that seemed impossible in previous decades. The Jobs Act, moreover, aimed at restructuring and improving public employment services in Italy, equally a measure that has long been recommended by labour market experts. Yet, the reforms were not only shaped by policy experts, but to a large extent they were conditioned by politics. At the European level they responded to requests by EU institutions for structural reforms. At the domestic level, the Fornero reform was a balancing act of a technocratic government nevertheless in need of domestic legitimacy, while the Jobs Act exemplifies Matteo Renzi’s strategy of re-orienting ideology and electoral appeal of the Partito Democratico.
This panel is dedicated to recent research on Italian labour market reforms. We invite paper proposals on three types of questions. First, research that examines the political processes that made far-reaching reforms possible and influenced their content. Second, analyses of the labour market outcomes that these two reforms have led to. Third, at a more general level we invite papers that investigate how changes in the labour market (e.g. long-term unemployment, non-standard employment, new forms of self-employment, or female labour force participation) impact political preferences and, thus, electoral politics.
Papers focusing on Italy are welcome. At the same time, we encourage contributions to take a comparative perspective. In the same period as the Italian labour market reforms, other European states also adopted drastic labour market reforms in the shadow of the Eurozone crisis. What are similarities and differences between those reforms? In yet other countries such reforms have not been undertaken. Where and by what actors were reforms blocked? Often governments, including the current Italian government, refer to the German Hartz reforms as an example to follow. To what extent did the Hartz reforms actually affect policy changes elsewhere and is this warranted from a prescriptive point of view?
Papers in Italian or in English are welcome.


Chairs: Georg Picot, Stefano Sacchi

Liberal Institutional Convergence in Labour Market Adjustment: Growth-Oriented versus Contraction-Based Adjustment and the Italian Case
Saliha Metinsoy (saliha.metinsoy@politics.ox.ac.uk)
AbstractThis paper examines the patterns of adjustment in labour markets during macro-economic crisis in OECD countries. It identifies two distinct types of adjustment: contraction-based and growth-oriented adjustment. In contraction-based adjustment, workers switch between sectors in order to avoid risks during the crisis and move towards the growing sectors away from the shrinking ones. Conversely, in growth-oriented adjustment, workers hold onto their jobs when the economy is contracting and move towards the growing ones once the crisis is over. The paper finds evidence that there is a convergence trend towards the contraction-based adjustment in the post-1995 period, whereas in pre-1995 period there were more markets in the growth-side. The paper explains the trend with liberal convergence and the dissemination of neo-liberal ideas in post-1995 period. In addition to depicting a general trend among the OECD countries, the paper conducts an in-depth analysis of the Italian labour market, which previously had a growth-oriented adjustment pattern and switched to contraction-based adjustment in the post-1995 period. The reform and changes in the Italian labour market helps us explicate the reasons for the neo-liberal convergence such as increasing volume of trade, external pressures on the labour market, and weakening labour market institutions.

Still South European Capitalism? The Divergence of Corporate and Labour Relations in Italy and Spain
Fabio Bulfone (fabio.bulfone@eui.eu)
AbstractItaly and Spain have always presented a puzzle within the Varieties of Capitalism literature and there is still lack of a satisfying definition of their capitalist model. In order to fill this gap in the literature this paper traces the evolution of Italian and Spanish capitalism over the last two decades. By comparing labour and corporate relations the paper highlights how the trajectories of the two countries show increasing divergence. While Spain moved towards the Liberal market model, Italy’s pattern resembles that of a Coordinated market economy. This divergence is then explained by looking at the preferences and sector of activity of the main domestic firms. It is shown how, owing to their double role as employers/blockholders, domestic firms are in a privileged position to influence labour and corporate relations. The actor-centred institutional approach here presented can be applied to other Continental economies thus providing an important contribution to the wider debate on the liberalisation of European capitalism.

 

Panel 7.6 Italian labour market reforms in comparative perspective (II)


In the last four years there have been two major labour market reforms in Italy: in 2012 the so-called Fornero reform (L 92/2012) and in 2014/2015 the so-called Jobs Act (L 183/2014 and its eight implementing decrees). Both, in particular the Jobs Act, deregulated dismissal protection and extended unemployment protection to an extent that seemed impossible in previous decades. The Jobs Act, moreover, aimed at restructuring and improving public employment services in Italy, equally a measure that has long been recommended by labour market experts. Yet, the reforms were not only shaped by policy experts, but to a large extent they were conditioned by politics. At the European level they responded to requests by EU institutions for structural reforms. At the domestic level, the Fornero reform was a balancing act of a technocratic government nevertheless in need of domestic legitimacy, while the Jobs Act exemplifies Matteo Renzi’s strategy of re-orienting ideology and electoral appeal of the Partito Democratico.
This panel is dedicated to recent research on Italian labour market reforms. We invite paper proposals on three types of questions. First, research that examines the political processes that made far-reaching reforms possible and influenced their content. Second, analyses of the labour market outcomes that these two reforms have led to. Third, at a more general level we invite papers that investigate how changes in the labour market (e.g. long-term unemployment, non-standard employment, new forms of self-employment, or female labour force participation) impact political preferences and, thus, electoral politics.
Papers focusing on Italy are welcome. At the same time, we encourage contributions to take a comparative perspective. In the same period as the Italian labour market reforms, other European states also adopted drastic labour market reforms in the shadow of the Eurozone crisis. What are similarities and differences between those reforms? In yet other countries such reforms have not been undertaken. Where and by what actors were reforms blocked? Often governments, including the current Italian government, refer to the German Hartz reforms as an example to follow. To what extent did the Hartz reforms actually affect policy changes elsewhere and is this warranted from a prescriptive point of view?
Papers in Italian or in English are welcome.


Chairs: Georg Picot, Stefano Sacchi

Towards new public employment services? The implementation of the measures introduced by the Jobs Act
Gianluca Scarano (gianluca.scarano@unimi.it)
AbstractThe reorganization of the public employment services (PES) may represent the mother of all challenges for the Jobs Act. This work will aim to understand the direction of change that Italian PES may undertake, analysing the impact of the new mechanisms introduced by the Jobs Act and paying particular attention to the features of the public-private governance of the system. Here, we will try to find some comprehensive indicators, in the attempt to summarise these different regional configurations, including also variables related to regional political systems. Then, in light of this operation, we will be able to analyse characteristics of local systems of PES, using a specific governance profile for each region, making some hypotheses based on very simple assumptions. At the same time, a term of comparison to understand the process of reform regarding Italian PES can be delivered from the comprehension of the German system of labour market policies, interested by a deep process of reorganization during the so called “Hartz reforms” in the Two-thousands.

Reforming labor markets in the world economy: Italy and France compared.
Beatrice Magistro (magistro@uw.edu), Stefano Sacchi (stefano.sacchi@unimi.it)
AbstractThis paper uses a most similar system design by selecting two countries experiencing growing budgetary and employment problems during the Eurozone crisis: Italy and France. On the one hand, Italy, in 2012 first and in 2015 after, passed wide-ranging labor market reforms under growing pressures from the EU and international financial markets. On the other hand, France, despite similar underlying economics, did not undergo any such pressure, and in 2013 it only passed a much less incisive labor market reform. Therefore, at least initially, this is a case of divergence, as the policy outcomes are different, due to varying financial markets pressure between the two countries and different domestic political contexts: in Italy, the technocratic Monti government first, and the Renzi government after, and in France Hollande’s presidency. However, in 2016 France set out a much more daring reform, leading to convergence. Our paper investigates why France passed the most recent labor market reform despite the lack of pressure from financial markets or the ECB. More specifically, the role of diffusion from the Italian “Jobs Act” of 2015, and the potential impact of a different type of market discipline, working through reputation, is analyzed, alongside their interaction with different domestic political structures.

Reforming the unreformable. Path departures in labour market policies and the new course of the Italian politics
Patrik Vesan (p.vesan@univda.it)
Abstract

 

Panel 7.7 Tavola rotonda: La riforma costituzionale come politica costituente


Il superamento del bicameralismo paritario. Un Senato con minori competenze legislative, composto da 95 senatori eletti dai consigli regionali (più 5 nominati dal capo dello Stato). La fiducia al governo votata dalla sola Camera. La revisione del Titolo V, con l’abolizione delle materie di competenza concorrente tra Stato e regioni. La cancellazione dalla Costituzione delle Province. L’abolizione del CNEL. L’introduzione dei referendum propositivi.
Questo, e altro ancora, è contenuto nel ddl Boschi di riforma costituzionale, che il prossimo autunno sarà sottoposto a referendum confermativo.
La tavola rotonda è organizzata congiuntamente con la sezione Sistema politico Italiano e vuole essere l’occasione per condurre una riflessione tra policy e politics sulla riforma Boschi, utilizzando i concetti della scienza politica sfruttando punti di vista scientifici diversi che mettono a fuoco temi e problemi inerenti le arene e le poste in gioco insite nella policy costituente.

Relatori:
Mauro Calise (Università di Napoli Federico II)
Gloria Regonini (Università di Milano)
Salvatore Vassallo (Università di Bologna)
Luca Lanzalaco (Università di Macerata)

Moderatore: Luca Verzichelli (Università di Siena)


Chairs: Andrea Lippi, Federico Toth

 
 
© 2016 Società italiana Scienza Politica Convegno 2016 - Università  Statale di Milano, Milano 15-16-17 settembre 2016 - segreteria@sisp.it powered by